Pro-Meide – Libro I – Anabasi e catabasi

30 Apr 2020

Libro I – Cap. III

Anabasi e catabasi

La piazza Cermenati in questa domenica al mattino presto, era punteggiata da anziani che andavano con passo tremolante ad affrontare la doppia scalinata in pietra grigia che conduce al sagrato della basilica di San Nicolò per la messa delle sette. L’assenza del Tivano mi confermava che avrebbe fatto molto caldo, le spiaggette ghiaiose del lago si sarebbero ben presto riempite di bagnanti accaldati e le auto cariche di Milanesi desiderosi di trovare frescura in Valsassina si sarebbero incolonnate sui tornanti da Malavedo a Ballabio, risvegliando con qualche colpo di clacson qua e là i residenti. Tutto nella norma, una classica immancabile domenica di Luglio tra lago e montagne tutti in fuga dalla bassa… Io stesso ero la regola non l’eccezione.
Dopo aver combinato un mezzo disastro nel montare l’ammortizzatore, avevo perso le viti facendole cadere nel tombino al centro del cortile di casa solo perché mi alzai dando retta al signor Ghezzi, che da buon pensionato pur di non star rinchiuso in casa stressato dalla moglie , appena mi vedeva armeggiare sulla bicicletta compariva come fosse una poiana affamata in picchiata su un pollaio. Era stato per quarant’anni alle Officine F.lli Borletti in via Washington, 70 a tornire minuteria e immancabilmente in un Milanese melodioso mi diceva “Uèe, l’è no ‘na bicicléta chesta chì… varda che robb… varda lì…varda lì, tuta de alùminio… ma quant la pésa, pòoch me sa propri… pòoch” ; mi son dato del pirla per un buon dieci minuti, ma per mia fortuna le viti le aveva lui. Vicino a casa avevamo la casa della vite e per sfizio di collezione ogni settimana ne acquistava qualche serie di passi e misure diverse, a che scopo non l’ho mai saputo… C’è chi colleziona francobolli e chi viti, non entro nel merito della passione, un terreno minato. Senza il suo intervento riparatore il giorno dopo non sarei stato lì ad aspettare Gianni Biffi ed i suoi argonauti.

In quel periodo non possedevo un autovettura, non che non ne avessi avute, ma dopo aver preso tra il  Giovedì notte e il Venerdì mattina due multe in divieto sosta per lavaggio strade decisi che il comune di Milano poteva vivere senza affibbiarmi multe. Mi muovevo estate ed inverno, pioggia, sole e neve in moto, se ne avevo necessità noleggiavo un auto: ma quel Sabato optai per un trasporto rapido, caricai la bici sul GS. La peculiarità di quest’ultima era, oltre al sistema di sospensione anteriore, l’ottimizzazione del trasporto bagagli: borse laterali, baule e la sella divisa in due parti che nascondeva sotto quella del passeggero un telaietto metallico che allungava il portapacchi. Tolte le ruote ed il reggisella legare la B5 con due corde elastiche era un gioco da bimbo dell’asilo, nelle borse casco e protezioni. Ero in piedi in fianco alla moto quando alle 7,30 preciso come un treno svizzero un furgone bianco seguito da alcune auto si fermò azionando le quattro frecce appena prima della piazza. “Biffi, questo è fuori, ma fuori vero…” disse ridacchiando Daniele scendendo dal furgone. Era un Ducato bianco, un duemila benzina: “Gianni come mai un furgone a benzina? Consuma come una nave porta container…” esclamai. “Non sopporto l’odore del gasolio, per niente” La risposta lapidaria non ammetteva replica. Nel frattempo scesero dalle auto accodate una decina di bikers dalle divise multicolori , in quel periodo il fluo imperava la stesso Gianni aveva un giacchino antivento logato Mountain Cycle in pieno petto, con una scelta di colori forse suggerita al grafico Californiano da un uso smodato di sostanze psicotrope… Non so chi fosse meno fuori tra tutti, poiché visto da vicino nessuno è normale (Franco Basaglia cit.).

Sul furgone il terzo sedile era occupato da un altro biker con una maglia attillata che rivelava il suo passato da stradista, un Milanesone dinoccolato e dalla lingua tagliente ma sempre in modo educato: Daniele Marnati. Il braccio meccanico di Pro-M, lo scoprii quel giorno, qualche ora dopo, prima di iniziare la discesa verso Poschiavo. Rimontai le ruote ed il reggisella alla velocità di Speedy Gonzales e trovai posto sull’auto di Gigi C. uno dei Clienti amici del Biffi che iniziò ad apprezzare la mia logorrea che gli tenne compagnia fino alla destinazione: Tirano. Il Bernina Express, treno a scartamento ridotto della ferrovia Retica con i suoi vagoni rosso fiammante, ci attendeva per portarci con lentezza al Passo del Bernina 2.328m sul livello del mare: considerato che Tirano sta a 441m avremmo avuto più di 2000m di dislivello in discesa, dato che saremmo scesi fino al Morteratsch dove avremmo raggiunto il ghiacciaio e, prima di riprendere il trenino e ritornare al Bernina se il meteo ci avesse assistito, avremmo ammirato la cima del Pizzo Bernina e la cresta vertiginosa del Biancograt che mette ansia solo a nominarla invano. Ma Svizzeri sono ed i treni caro lei, partono sempre in orario, quindi trovato parcheggio nei dintorni della stazione andammo trafelati alla banchina dove in ordine allineammo le bici pronte ad essere caricate sul vagone dedicato, appoggiate al corrimano sembravano tante fuoriserie pronte alla partenza in puro stile Le Mans. Sembrava un trofeo monomarca Mountain Cycle escludendo la mia AMP B5, una Pro Flex 856 di cui ho gà parlato ed una bici in tubi di acciaio con una forcella ammortizzata marchiata Marnati.

La salita con il percorso era un apoteosi di bellezza architettonica e paesaggistica: dopo pochi chilometri passata la frontiera elvetica un viadotto elicoidale ci sorprese , permettendoci di fotografare a 360 gradi la valle consentendo al trenino di inerpicarsi con pendenze al 70% per arrivare a Miralago costeggiando il lago di Poschiavo dove l’azzurro turchese delle acque si scioglieva nel verde profondo dei boschi circostanti e dove la valle si apre con maestosità sotto lo sguardo severo del Bernina. Non si faceva un granché di chiacchiere, per molti del gruppo era la prima volta, si osservavano le rive boscose ed i ghiacciai pensili tra gli “ooohhh” di stupore di comitive di turisti Giapponesi con calze ed infradito ai piedi tutti presi dallo smanacciare le loro Nikon F4, tanto che fotografarono anche noi quando scendemmo al passo… Chissà che cosa mai pensassero di noi, credo che l’abbigliamento arlecchinesco abbia avuto il suo fascino. Lasciata l’alpe Grum la vista del Lago Bianco ci permise di vedere il sentiero che avremmo percorso per tornare a Tirano, scorreva in parte in fianco alla linea ferroviaria per poi sparire alla vista poco prima di una diga idroelettrica. Scendemmo carichi come molle dal treno sferzati da un vento pungente che al Passo del Bernina non ti abbandona mai nel bene e soprattutto nel male, quindi anche l’antivento psichedelica aveva un senso perché ti evitava il record di corsa al bagno dove se non avevi il franco pronto eri castigato…

Salire a freddo per guadagnare una cinquantina di metri di dislivello era decisamente fastidioso, le nubi si sovrapponevano rapide al sole che cercava di riscaldare una landa senz’alberi ed il vento ovviamente faceva il suo lavoro soffiandoci beffardo contro. La difficoltà della percorrenza dei sentieri era assai diversa da quella di oggi date le minori escursioni e le gomme che non avevano le mescole ultragrappanti che utilizziamo in questi ultimi anni; non si abbassava la sella in discesa per cui vederci scendere non era come vedere Barishnikov sul palcoscenico dell’Operà di Parigi… Posso dire che con le geometrie del tempo facevamo cose inimmaginabili, tipo cappottoni degni del miglior “Fantocci” (Sig.na Silvani cit.) oppure la dimostrazione pratica del Big Bang. Avendo esplorato ormai da dieci anni l’Engadina, condussi il gruppo lungo un sentiero escursionistico che sfiorava il Piz Lagalb, un dente scosceso che fa da spartiacque con la valle di Livigno: non esistevano precisi sentieri per mountain bikers, si percorrevano le carrarecce dove i cavalli trainavano annoiati le carrozze pullulanti di vacanzieri con i pantaloni di velluto a coste larghe oppure i tracciati del CAS. Il sentiero lo conoscevo bene, sapevo quali difficoltà avremmo trovato, vedendo il gruppo cosi omogeneamente fluo pensai che lo fossero anche in discesa. Daniele il braccio meccanico di Pro-M si fece gran parte del sentiero con la bici a mano e non me lo mandò a dire quando fummo alla stazione del Morteratsch: in realtà non era cosi difficile, ma per chi come lui proveniva dalla strada, la sua idea di fuoristrada era più simile al ciclocross… Gianni aveva in quel momento una San Andreas nera e dietro di lui sfilavano tutte le altre che sembravano mustang al galoppo, quasi a fagocitare i massi di granito che interrompevano il fluire del sentiero, che poco dopo si sarebbe dolcemente trasformato in un serpente di terra gialla fino alla strada bianca che ci avrebbe portato verso il ghiacciaio. Un caldo sole ci aveva accolto, ma nuvolaglie minacciose che facevano cappello alla cima ci consigliarono di prendere il primo treno in direzione del Passo.

Finalmente il tepore della carrozza che era come da regolamento per tre quarti occupata da una comitiva di giapponesi questa volta con gli scarponi da montagna e con le macchine motorizzate pronte a sparare trentasei foto in un battito di ciglia. Il gruppo sembrava soddisfatto del percorso non avevo familiarità con nessuno di loro, ma una sana empatia si era già sviluppata. Non ero ancora nel meccanismo della presa per i fondelli, attività che con diverse modalità segnerà le uscite future… Per fortuna non ci siamo mai presi sul serio, altrimenti non sarei qui a scriverne.
Il tragitto nonostante la splendida lentezza del trenino fu breve, scendemmo all’ Ospizio del passo e costeggiando il Lago Bianco pedalando alcuni tratti in saliscendi piombammo all’alpe Grum da dove si spalancò sotto le nostre ruote la scoscesa Val Cavaglia. Il Lago Palù alla vista sembrava un turchese grezzo adagiato su un cuscino di color smeraldo legato da un fiocco grigio. Il sentiero scendeva a capofitto fino a lambirlo, tra sassi smossi e taglia acqua assassini: eccome se lo erano.
Le vittime non si fecero attendere ed io come dimostrerò anche in futuro ero la vittima sacrificale predestinata. “Certo che… Se mi scendi così più prima che poi una foratura ti aspetta” Gianni con un sorrisino un poco strafottente ma ci stava, ero nuovo dell’equipaggio, il comandante era lui anche se non mi sembrava fosse il capitano Achab e io non ero Ishmael, per carità aveva ragione… “La modalità Caterpillar può dare dei buoni frutti, ma a Poschiavo non arriverai se non hai qualche camera nello zaino”. In effetti Gianni aveva ragione. Ho sempre guidato con pressioni imbarazzanti, ma visto che non sono un peso piuma avrei dovuto preferire due ruote di legno. Per completare il quadro avevo problemi con il cambio, Daniele il braccio meccanico di Pro-M forse impietosito dal mio armeggiare sul cavo si avvicinò. “Regola n.1: se té sbùset té se incùlet… Regola n.2: le regolazioni si fanno in officina prima di uscire… Regola n.3: incoò l’è Dumenega e lauri no”. Queste regola auree mi seguono ancora adesso anche se dopo ventidue anni qualcosa è cambiato…

Ed allora giù sempre a testa bassa visto che il reggisella stava in cielo, attraversando la linea ferroviaria conducendo le danze, seguivamo i calanchi che il torrente Cavagliasch impetuoso aveva forgiato, accecato dalla voglia di gettarsi nel lago e noi chi più chi meno non eravamo inferiori per impeto: il sentiero sembrava infinito e la stanchezza iniziava a farsi sentire. La postura in sella, le sospensioni che offrivano al massimo 120 mm nel mio caso per le San Andreas 112,5 mm non erano sicuramente degli overcraft, ma i sorrisi non mancavano, le ruote si sollevavano ritmiche da terra sbuffando nuvole di polvere come tori all’ingresso dell’arena.
Rapidamente il sentiero si trasformò in un tratturo e poi in una strada bianca e senza renderci conto ci trovammo sull’asfalto a Poschiavo ed una ciclabile ci avrebbe portato a Capolago. La statale ci avrebbe riportato alle auto parcheggiate, avevamo il tempo di sfilarci la testa del gruppo l’un l’altro con scatti repentini oppure infilandoci negli spazi lasciati aperti a centro curva ma le fughe venivano sempre ricucite da Gianni che aveva le ruote più scorrevoli : questo sarà il leit motiv che accompagnerà le gite nel futuro, ma in quel mentre non potevo saperlo…
Mi addormentai a Sondrio e mi svegliai sul lungo lago di Lecco che pullulava di gente a spasso nel tardo pomeriggio con bimbi vocianti, cani al guinzaglio e decine di moto allineate in bella mostra davanti alle gelaterie. “Grazie a tutti, è stata una gita niente male” dissi mentre legavo la bicicletta sulla moto. “Grazie a te, ottimo giro, sentiamoci prossimamente, magari qualche altra volta usciremo”. Salutai tutti con un cenno della mano e mentre i due Daniele e Gianni stavano per salire in furgone dissi: “chissà mai che non si esca qualche altra volta se ci sarà modo”. Inforcai la moto e sgattaiolai tra le auto in coda direzione Milano.

Pro-Meide – Libro I – ¡ hoy madre !

29 Apr 2020

Libro I – Cap. IV

¡ hoy madre !

Andovvai se un claim ‘uncellai?

Milano a fine secolo respirava ancora gli anni della Milano da bere, quella della pubblicità dell’amaro Ramazotti tanto per intenderci. Viveva di quell’aurea che i locali dove i piatti in bella mostra ti schiaffavano sotto gli occhi tartine, patatine e reduci degli anni d’oro di Tangentopoli che con le loro Harley d’ordinanza scodellavano le ultime modelline Americane rimaste, prima dell’invasione Russa che avrebbe stroncato il mito delle super muse degli stilisti, strapagate per fare il muso imbronciato sulle passerelle della settimana della moda. In quel girone dantesco ricamato con effimera bellezza, si muoveva con un gran dinamismo da parecchi anni un amico di lunga data di Gianni: Gianfranco S. aka “The Vice” (di questo e di altri nickname avremo modo di spiegare nel corso degli eventi). Nonostante fossero quasi agli opposti per stile di vita ed abitudini lavorative coltivavano un amicizia solida che con l’apertura di Pro-M si cementò ulteriormente, visto che queste biciclette Americane avevano un fascino esclusivo, come il mito di quei catorci da 300 chili tutti cromati e scintillanti che il più grande comunicatore delle due ruote aveva creato in via Niccolini, erano degne protagoniste di un set fotografico.

Gianni era abituato da sempre ad alzarsi presto per andare in azienda, incarnava la dinamicità dell’ imprenditore Milanese tutto casa, lavoro e passioni: non era un ciclista, non veniva dalla strada. Lui aveva la passione per le due ruote, soprattutto per quelle fuoristrada che coltivava da quando suo padre gli regalò un Guazzoni 50 Mattacross che il Sciur Aldo un visionario, tale e quale i padri della mountain bike, costruiva una ad una le sue creature soddisfacendo i desideri dei Clienti in un atelier di raffinatissima artigianalità in Porta Romana: credo che questo si sia nascosto nel subconscio di Gianni fintanto che non ebbe il suo primo telaio San Andreas di Mountain Cycle.
Robert Reisinger, un ingegnere meccanico Californiano dopo alcune esperienze come pilota di elicotteri ed un quinquennio come pilota e tester Kawasaki motocross aprì con 5,000 dollari la sua compagnia a San Luis Obispo in California nel 1988, per produrre telai da MTB. Aveva anche una forte passione per l’aeronautica: costruì il primo elicottero a propulsione umana che fu in grado di volare, insomma ci troviamo di fronte all’ennesimo genio che quel periodo ci donò. Credo che ogni studente o professionista che voglia disegnare un telaio, dovrebbe avere di fronte alla scrivania una fotografia di una San Andreas, pena la messa in mora di Inventor. La penna di Robert rivoluzionò i telai fino a quel momento nati da telai di derivazione stradale (“girela come tèe vòret ma in semper vòtt tubi”, Daniele Marnati manuale spirituale del telaista cit.) donandoci un design elegantemente semplice che applicò ad un monoscocca di ispirazione motociclistica o come del resto la sospensione posteriore. Talmente innovativo, uno stato dell’arte che la San Andreas non a caso è l’unica bicicletta che è stata esposta in un museo di arte moderna: il MoMa di San Francisco (not bao-bao, micio-micio… Gianni Biffi cit. primi anni duemila). Commercializzata nel 1991 fu la prima prima biammortizzata venduta di serie con freni a disco.

Mi ricordo ancora la prima di copertina della Bibbia che titolava entusiastica: “Have It Our Way… A bike so radical that it pushes the design limitations of not only bike frames but also suspension and brakes to new extremes”. Era Dicembre 1992, io avevo pompato fino a Maggio su una Gary Fisher RS-1 che mi sembrava un convivio di tecnologia, avevo montato una coppia di freni Grafton, prolunghe Control Tech in Titanio e una poderosa RockShox Mag 21 da 50 millimetri, gomme Tioga Farmer John da 1.8 e sul cockpit i comandi rotanti Gripshift di Sram… Cancellata dalla scossa di terremoto della San Andreas come fosse una costruzione abusiva sullo stretto di Sicilia. Non a caso credo il buon Reisinger aveva scelto il nome: San Andreas è la faglia Californiana luogo di devastanti terremoti, che si ripetono con intervalli regolari di circa 22 anni. E che scossa fu nel magmatico mondo della mountain bike: in seguito tutti i suoi prodotti furono caratterizzati da nomi legati alla sismologia ed ai suoi padri.

Quindi Pro-M aveva uno dei telai più desiderati, la San Andreas era pronta una volta che passata dalle mani di Daniele Marnati che gli faceva trucco e parrucco sotto le disposizioni a volte al limite dell’esoterico art director: non a caso l’accuratezza e la scelta dei componenti, fatta in modo che incarnassero i desideri del Cliente furono motivo di notizia sulle riviste del settore, sempre alla ricerca di novità: il Sciur Aldo Guazzoni su in cielo una lacrimuccia la lasciò scorrere.
Gianni era ed è un personaggio a suo modo particolare, mi ricorda Carlo Talamo deus ex machina di Numero Uno con il quale ebbe un lungo screzio, di quelli che suscitano amore o odio ma che non lasciano indifferenti come tutte le biciclette che ha assemblato.

“Biffi, Biffi, ascoltami bene: qui bisogna fare un poco di casino. Le pagine pubblicitarie delle riviste MTB fanno lo stesso effetto della dolce Euchessina ad un bambino di cinque anni. Sono di una tristezza, ma di una tristezza che mi verrebbe voglia di smettere di andare in bici”. Gianfranco come suo solito si era materializzato verso l’ora di pranzo, visto che in quel periodo non aveva importanti ed esclusivi parties all’Hollywood o aperitivi all’Hotel Diana. Giacca azzurro slavato, camicia bianca immacolata aperta sul petto che quando voleva essere assertivo gonfiava come un gorilla di montagna per sembrare più massiccio di quanto non fosse in realtà. Aveva una gran cura del corpo la palestra faceva il suo porco mestiere, braccialetti al polso e capelli non troppi ed ingellati quanto basta, occhiali con una montatura fine in tartaruga abbronzatura regolamentare con un sorriso sempre pronto. Telefoni due che sfoderava come un pistolero del selvaggio west, spesso squillavano e rispondendo all’unisono, fatto che gli impediva di completare un qualsiasi discorso che aveva iniziato… A Bologna avrebbero detto sborone, ma come non voler bene a The Vice. Gli amici un poco maligni, lo chiamavano il rappresentante della fig@a per il lavoro che svolgeva all’interno della più importante agenzia di modelle di Milano, ma era tutta invidia credetemi: vi vorrei vedere voi se non lo sareste, se un vostro amico che conoscete dall’adolescenza vi viene a trovare con Martina C. così facendo un nome a caso… Questo aspetto faceva un attimo, quel giusto innervosire il Biffi, che essendo anche e comunque impegnato in altre faccende lo stava per mettere alla porta con molto affetto. “Dai Gianni, andiamo a trovare Giovanni C. in studio ci devo passare per lavoro nel pomeriggio, ho una modellina Ceca che, credimi ne sono convinto, ha le potenzialità per diventare una top.” Gianni lo guardò sconsolato: “di bici capisci poco e un razzo, ma di fi@a non hai rivali” . Una fragorosa risata echeggiò nel magazzino “tu vendi bici ed io invece mi spiace per te, fi@a… ad ognuno il suo… Dai ci vediamo più tardi”.

Gianni controllò l’ora, si passo una mano nei capelli, prese la chiave dell’auto dalla tasca anteriore dei pantaloni avvicinandosi alla Subaru parcheggiata all’ingresso. “Oggi no, ho da fare, vedi se domani verso l’ora di pranzo Giovanni ha tempo, fammi sapere dai”. Gianfranco uscì sulla strada infilò un telefono tra testa e casco, accese il suo motorino e gridando in risposta ad una delle tante chiamate si allontanò alzando il pollice della mano sinistra, come se volesse impartire ordini ad un set fotografico inesistente.
Lo studio di Giovanni C. era in zona Navigli, in una corte di una casa di ringhiera, una di quelle che costeggiano l’ alzaia del Naviglio una volta popolate dagli operai ed artigiani Milanesi e dai “Napoli” che all’inizio del novecento avevano iniziato a salire su in folate interrotte solo dalle due guerre a trovare un lavoro ed un alloggio a basso costo. La Milano degli anni ottanta, quella dell’edonismo e dei locali si sostituì ai vecchi abitanti, trasformando la zona in una sorta di circo Barnum dell’apparire, quella che i giornali modaioli battezzeranno “la movida Milanese”. Tra un ristorante ed un pub che la maggior parte durante il giorno stavamo con le serrande a mezz’asta, si trovavano studi di artisti, creativi e fotografi. Milan l’è semper un gran Milan, a modo suo dava spazio a tutti. Giovanni C. non era sconosciuto a Gianni, si conoscevano da tempo legati dalla passione delle due ruote, aveva anni prima intrapreso la rinascita del marchio Harley con un un trio di amici ma la fotografia era la sua missione: i suoi ritratti sono pietre miliari pubblicate su riviste di tutto il mondo, dove riuscivi a leggere i protagonisti fin dentro il loro più recondito pensiero. Il suo libro fotografico Cilindri Bulloni & Facce raccoglie 50 ritratti di motociclette ed i loro proprietari, un excursus sociologico di passione ed introspezione.

Nella corte, c’era la sede dell’associazione Achiappocane e di fronte l’officina di un fabbro che faceva i lavori per loro: entrando l’odore del ferro era lo Chanel n.5 del palazzo ed i colpi di mazza scandivano a tempi irregolari la giornata. Dato che il nostro buon The Vice era in ritardo, come sempre adduceva impegni che lo tenevano al telefono per ore ed ore e l’ora di pranzo si avvicinava, Il Biffi si era presentato come suo solito in perfetto orario nello studio fotografico, dove aveva trovato seduto alla scrivania della segretaria di Giovanni C. un’altra sua conoscenza, un altro Gianni che pure aveva l’iniziale del suo cognome uguale alla sua. Una vità professionale cresciuta nelle agenzie pubblicitarie, come Art Director aveva inventato e diretto molte campagne che in quegli anni spopolavano su riviste e nelle televisioni. L’uomo si nascondeva dietro una barbetta incolta ed ad un paio di occhiali grandi come i fari di San Siro, dotato di rara arguzia e appassionatissimo pure lui di motociclette. “Ragazzi, scusatemi, la riunione in ufficio si è prolungata, sapete che quando siamo a programmare con Riccardo non si riesce mai a concludere… Allora che si fa andiamo a mangiare un boccone? Dai che abbiamo poco tempo qui bisogna ottimizzare…” Gianfranco aveva lasciato aperto la porta dietro di sé. Giovanni era riemerso dal set fotografico, quindi il gruppo si mosse alla trattoria che stava sul marciapiede di fronte alla corte. I tavolacci di legno scuro in stile vecchio trani disegnavano una scacchiera sul pavimento di graniglia all’interno del locale, le posate ed i bicchieri accompagnati da un calice d’acqua stavano allineati su tovagliette ritagliate con la carta da macellaio, quella carta color senape che è stata cancellata per le nuove norme igieniche vigenti. “Ti ci vuole un claim, Gianni… Andovvai se un claim ‘uncellai? Il prodotto ci sta, il fotografo pure, lui a ritrarre impazzisce, anche se sono soggetti inanimati… Guarda cosa ha fatto per le moto di Carlo Talamo… Magari un domani ci mettiamo anche un poco di fi@a che in un mondo di machi non guasta, tanto abbiamo lo spacciatore, ma dobbiamo trovarlo questo claim…” Così disse il creativo, con tutti i presenti che attendevano la sua mossa successiva. “Gianfranco, dammi ‘na penna và, che qui bisogna trovare qualcosa… Biffi di dove accidenti è il Marchio? Californiano? Bene, bene… Ma dove sta? A sud? uhmmm Monterey, San José…? “ “San Luis Obispo” rispose il Biffi prontamente. In un rigoroso silenzio Gianni si tolse i pesanti occhiali ed iniziò a scarabocchiare mezze frasi sulla tovaglietta macchiata da piccole macchie vermiglie di vino. “Qui sono tutti Chicanos, degli Americani hanno poco, la tradizione è puramente Messicana e sì… Te lo vedi il peone che torna a casa dai campi e si vede davanti l’uscio passare una San Andreas? Ma che può pensare? Un ufo!

¡ HOY MADRE ! che comunque è un esclamazione tipica di San Luis Obispo, da quando i Messicani costruirono la prima chiesa…

Pro-Meide – Libro I – Il Racing Team

28 Apr 2020

Libro I – Cap. V

Il Racing Team ovvero la compagnia della Pro-M.

La passione, non solo quella sportiva, ci conduce ad aggregarci, crea gruppi di primati evoluti che si radunano in tribù sotto l’egida di un maschio che viene riconosciuto dal gruppo come il capo per capacità intellettuali o fisiche. Spesso le due condizioni sine qua non di pari passo non vanno “Se avessi il tuo fisico con il mio cervello conquisteremmo il mondo” (Gianni Biffi citazione ciclica dal 1998). Considerato che il Dr. Frankenstein era reale solo nel libro di Mary Shelley, nel gruppo è necessario trovare l’equilibrio tra i componenti come in un cocktail esotico nonostante fossimo più prossimi ad un bicchiere di Campari col bianco dosato a casaccio da un barista alticcio in un bar della alta Val Brembana. Pro-M aveva adottato una politica commerciale inusuale ai tempi: vendeva direttamente al pubblico mantenendo lo stesso prezzo applicato negli Stati Uniti. Aveva preso la decisione di farlo escludendo i negozi, attivandosi sulla rete che stava evolvendo in modo esponenziale in tutti i campi commerciali. I primi anni Duemila segneranno la svolta e Gianni aveva intuito questa potenzialità, costruendo un sito web dove precorse l’e-commerce attuale: non pochi di Voi ricorderanno il primo configuratore di MTB che aveva anticipato persino le case automobilistiche in quei giorni! Ma il fatto che non avesse una vetrina, portava tutti gli appassionati attratti dalle sue pagine pubblicitarie ad andare in pellegrinaggio in Via Lucillo Gaio per una visita nel santuario dei sogni. Il fatto di soddisfare i propri desideri li portava a passare da un semplice Cliente da pret à porter ad essere il Cliente di una sartoria artigianale, servito e riverito dove si creava un empatia sottile complice la scelta del componente oppure il colore del telaio, dove tutto ti veniva cucito addosso: la tua bicicletta era riconoscibile come le cifre sulla camicia. Io non avevo cambiato ancora il tessuto, ma presto avrei iniziato a farmi fare i miei giocattoli su misura. Non era solo commercio quello che accadeva: quando il Biffi apriva la porta del tempio si entrava in una sorta di trance emotiva dove il tempo riprendeva il suo valore disquisendo di tutto e di nulla, di dettagli spesso agli occhi attuali poco rilevanti ma che erano importanti come la cucitura all’inglese su una giacca di Caraceni.

Poco importava chi fossi nella vita quotidiana se ricco o meno abbiente, monaco Hare Krishna o studente universitario oppure che avessi le orecchie a punta che rivelavano la chiara origine Vulcaniana, ma quello che era lapalissiano esondava dai fiumi di parole: volevamo condividere ogni singolo istante passato in sella alle nostre amate “bambine” (The Vice cit.) e li in quel magazzino si rivelava, come la liquefazione del sangue di San Gennaro nell’ampolla nelle mani del Cardinale. “When the Lord gets ready, you gotta move” (Mississipi Fred Mc Dowell cit.). Perché la guida in fuoristrada è come un blues suonato con il bottleneck: determiniamo passaggi glissati tra un sasso ed una radice e lo tiriamo più lungo possibile, modificando l’azione per alzare i toni…. Potrebbe non finire mai, oh yeah.

Il nucleo storico, lo zoccolo duro dei possessori di Mountain Cycle non erano degli atleti divorati dalla furia agonistica, erano la dimostrazione della summa epicurea: soffrire a quale scopo? Meglio prenderci del corroborante divertimento unito a tutto il tempo necessario per digerirlo. Gianni trovò semplice unire i Clienti che si erano raccolti intorno alla Pro-M coinvolgendoli in gite domenicali. Il tempo dei bike park era la da venire, l’artificiale non era ancora entrato nel lessico dei Bikers: anche le competizioni di discesa si svolgevano su tracciati naturali con piccoli aggiustamenti per la sicurezza dei partecipanti. Mi ricordo ancora un Gran Prix del Mottarone, che ricalcava il sentiero L1 che conduceva a Stresa: una coppia di fratelli Bergamaschi, Loris e Gianluca Bonanomi, sbaragliarono la concorrenza agguerrita mandando su tutte le furie il terzo arrivato Luca Benedetti che sbottò gettando la sua Pro Flex dotata di forcella Spring a corsa lunga a terra, dicendo “ti pare che due pistolini mi debbano stare davanti?” Immagino che tutti sappiate come sia proseguita la carriera di Gianluca, ma di questo ne scriverò più avanti nei nostri annali. Le gite si affidavano ai sentieri od ai tratturi che conducevano ai rifugi, disseminati come i canditi nel panettone, sulle montagne. Oppure avendo un retaggio da regolarista, si ripercorrevano in Brianza i tracciati delle speciali a San Genesio o a Consonno, il paese fantasma. Quindi era un andare in montagna simile allo scialpinismo invernale, più che salire e scendere sulle piste lavorate delle località alla moda, non avevamo ancora “inventato” il freeride.

Gita dopo gita il plotone si ingrossava sempre di più, in giro le “bambine di Pro-M” erano sempre più protagoniste, i biker sempre più protetti da gomitiere, parastinchi e caschi integrali con legato sulla schiena il Camelbak una sacca idrica integrata nello zaino pensata per le truppe Americane della prima guerra del golfo, ma poi sdoganate per un uso meno marziale. Non si utilizzavano sistemi di navigazione se non le mappe e la fiducia riposta in coloro i quali si offrivano come guide. L’evoluzione del gioco ormai era entrata in una fase molto molto dinamica, non tanto qui in Italia dove vivevamo si le glorie dei risultati dei nostri atleti nel cross country e nella DH, ma impaludati nelle rigide direttive della Federazione che non comprendeva l’ampiezza del movimento, o per lo meno non era così lungimirante: si immaginavano solo le competizioni, non le manifestazioni di più ampio respiro. Ad ovest i nostri cordialmente odiati cugini Francesi avevano, grazie ad un numero superiore di praticanti e di conseguenza di atleti in ogni disciplina, iniziato a mettere le basi di quello che oggi chiamiamo erroneamente enduro, forse dovremmo dire più correttamente All Mountain: manifestazioni aperte a tutti come delle gite tra amici, utilizzando gli impianti di risalita spesso e volentieri. La Freeride Classic, rally come la Transvesubienne, che fu pioniera del divertimento con chilometri e chilometri di singletrack entusiasmanti, paesaggi inaspettati e navigazione da Paris Dakar. La prima edizione risale al 1990 grazie ad un intuizione di George Edwards che cinque anni dopo sulla scia del successo ottenuto diede vita alla più incredibile, devastante ed adrenalinica maratona di discesa, la Megavalanche dell’Alp d’Huez.

Le notizie non correvamo come oggi così veloci, il principale veicolo erano le riviste e per avere un idea di cosa succedeva in giro per il continente ti toccava vendere un rene per poi recarti con il ricavato all’edicola in largo Treves dove trovavi tutto quello che desideravi leggere con la stessa arroganza di un tossico in astinenza… You gotta move. Era giunto il momento, la curiosità di andare a provare questa esperienza tripillava nei pensieri di Gianni. Fece ricerche, visionò il tracciato, sfogliò avidamente il regolamento e prese una decisione. Per accedere al numero chiuso dei 400 partecipanti della maratona DH all’Alp d’Huez era indispensabile oltre un bel certificato di sana e robusta attitudine sportiva, una società di affiliazione, perché il tutto si svolgeva sotto l’occhio socchiuso della Federazione Francese che pur non essendo strabica come quella Italiana, una parvenza di ufficialità la doveva garantire, vista la presenza di cronometristi e giudici. Una gara come questa lunga più di 25 km e con oltre 2,600 m di dislivello negativo non del tutto in discesa, anzi con lunghi tratti da “cross country addicted” da farti sputare i polmoni.

Un tiepido tardissimo pomeriggio di Maggio, Daniele T. e Gianfranco S. , che trovo lo spazio tra i suoi pressanti impegni mondani di presenziare, furono convocati in Lucillo Gaio dal Biffi che come sua abitudine aveva preparato tutta la documentazione in modo scrupoloso per dar vita ad un associazione sportiva. “Vi ho chiesto di venire oggi da me, perché è mia intenzione fondare un’associazione sportiva legata alla Pro-M. Non perché io abbia ambizioni da podio, queste le lasciamo a chi lo fa di lavoro, ma ho voglia di iscrivermi alla Megavalanche dell’Alp d’Huez che si svolgerà questo Luglio. Ho chiesto a Robert Reisinger di poter utilizzare il Logo di Mountain Cycle per abbinarlo al nostro nome… Il logo in linea di massima saranno i picchi delle scosse di terremoto con al centro la scritta Pro-M con sotto la semplice dicitura Racing Team, gentilissimo mi ha detto subito di sì. Quindi ci vogliono le figure istituzionali di riferimento: Presidente ,Vicepresidente e segretario: se siete d’accordo penso che tu, Daniele sia il segretario perfetto e per la carica di Vice tu Gianfranco vada benissimo visto il poco tempo che hai a disposizione, saresti come Al Gore per Bill Clinton, conteresti poco, ma sarai sempre al mio fianco.” Daniele scosse il capo in cenno di assenso, la sua posizione era perfetta per lui, Gianfranco sfoderò uno dei sui migliori sorrisi a suggello della nomina. “Biffi che @igata! Non vedo l’ora di mettere gli adesivi Pro-M Racing Team sulla bici! Il marchio sulle bici serve, arricchisce il prodotto”. “Guarda anche se hai gli adesivi sul telaio rimani un paracarro, non che da un mulo tiri fuori Ribot”. Daniele lo sfotté ferendo il suo lato competitivo, tanto che un vaffà volò sonoro nel capannone. Così Gianfranco divenne per tutti gli accoliti appassionati del Racing Team “The Vice” e questo nickname lo segue ancor oggi anche se di lui abbiamo perso le tracce da qualche anno, ma rimane sempre nei nostri cuori.

Il Giovedì che precedeva un fine settimana di fine Luglio, Gianni caricò nel furgone che non profumava di gasolio la San Andreas nera di Marco P. , la Shockwave rossa di Bruno “Che Bici!” (il cuoco del ristorante Hare Krishna di via Torino ndr.) che sfoggiava una Risse da 200 mm doppia piastra e la sua candida e immacolata San Andreas che il buon Marnati aveva finito poche ore prima cercando di alleggerirla il più possibile perché Gianni conoscendo le sue capacità fisiche e studiato il tracciato si rese conto che la tattica giusta era una bicicletta che avesse sì delle escursioni adeguate ma era importante che fosse pedalabile, poco pesante e tanto, tanto scorrevole. Questo fu il primo di tanti viaggi, fine settimana e settimane in giro per l’Europa, e non solo, che il Racing Team fece. Si alternarono decine e decine di Bikers donne e uomini nelle Domeniche degli anni successivi, alcuni si persero strada facendo, abbandonarono le attività, si dedicarono chi alla pesca, chi alla moto e qualcun altro fu fagocitato dal lavoro o dalla famiglia. Si instaurarono solide amicizie, che vanno oltre la passione per la bicicletta. Magari non ci frequentiamo molto ma quando ci si vede per un uscita da “Fanigutuni” (espressione vernacolare sempre lombarda che nasce da “fàa nigòtt”, non fare nulla, cosa in cui riusciamo sempre bene il podio è nostro), il fatto di condividere anni di amicizia, sembra esserci salutati pochi giorni prima solamente con qualche ruga e capello grigio in più e una nuova bambina da accudire.

L’amicizia è un’anima che abita in due corpi. La natura non fa nulla di inutile (Aristotele 384 a.C. 322 a.C.).

Pro-Meide – Libro I – Papà Gambalunga

27 Apr 2020

Libro I – Cap. VI

Papà Gambalunga

“Cosa fare per migliorare le mie bambine? Il peso, bisogna ridurre il peso come in un programma weight watchers, limando su componenti, ruote e gomme: lo posso fare. Questo è l’aspetto semplice da affrontare, quello che qui bisogna trovare è migliorare la geometria e le sospensioni.” In effetti la tendenza era di allungare le escursioni ma solo in ambito discesistico: le front erano le più vendute, era più facile vedere un’ apparizione della Madonna a Medjugorje che una biammortizzata con freni a disco sui sentieri. Chi aveva un retaggio motociclistico e soprattutto il desiderio di non devastarsi la schiena, cercava come Gianni il continuo miglioramento del mezzo, del resto la bici migliore è quella che non è ancora uscita sul mercato. Quindi siamo sempre alla ricerca di un miglioramento, non poteva immaginare che quel giorno un altro tassello sarebbe saltato.

Quello che bisogna sapere è che i costruttori non avevano le idee ben chiare su questi due aspetti: l’angolo di sterzo era verticale quanto il canale Marinelli su monte Rosa ed il movimento centrale se la giocava con l’antenna in cima all’Empire State Building fortunatamente senza King Kong a prenderci a schiaffi. Le sospensioni fino a quei momenti erano oneste, spesso un paio di AJ 1 avevano una risposta elastica migliore.

Questa ricerca, che ormai era un’ossessione, coinvolgeva Daniele Marnati ogni qualvolta il Biffi entrava nell’officina di via Delfico dove il braccio meccanico di Pro-M costruiva i telai che portavano il suo nome “MARNATI” dipinto sul tubo obliquo con quel sapore che oggi chiameremmo vintage, proseguendo la storia artigianale che suo padre aveva iniziato negli anni quaranta.
“Signor Biffi, buongiorno il Daniele l’è de là a saldà, aspeta che vù a ciamal un atim che le riva”. La Sig.ra Marnati, mamma di Daniele, presidiava l’ingresso in officina dietro ad un bancone di legno. Stava impettita come una guardia Svizzera davanti al Vaticano, vestita con un’eleganza di altri tempi e con i capelli sempre in condizione perfetta, facendo si che nessuno potesse entrare in officina filtrando Clienti ed amici ma soprattutto i pensionati nullafacenti della via, vere mine vaganti tra il bar di fronte, la chiesa chiusa e le bici esposte in vetrina che cercavano di entrare con la scusa di parlare dei pettegolezzi del quartiere con Lei, ma il fine era di guardare Daniele all’opera nelle registrazioni fini con sommessi borbottii, orfani di cantieri in zona.

Abbandonava la postazione solo in casi estremi, giusto se entrava uno come Gianni, altrimenti stava immobile continuando a leggere o a fare le parole crociate, prima o poi Daniele sarebbe rientrato dal suo laboratorio dove saldava e torniva in fondo alla corte alle spalle della ferrovia. Sarebbe riemerso insaccato nel suo camice blu con aria interrogativa ed occhiali abbassati sulla punta del naso. “Biffi non ho tempo, ho da finire dei telai, se hai da lasciarmi qualcosa metti lì che poi ci penseremo, tant per capì cosa hai portato?”

In quegli anni tumultuosi, l’evoluzione era in piena rampa di lancio. Le discipline cross country e DH si stavano evolvendo prendendo strade opposte, la specializzazione era ormai nel destino della mountain bike; solo pochi anni prima non si consideravano corse superiori a 130 mm pensando che fossero il limite per i mezzi da discesa. Su richiesta degli atleti, che si sentivano defraudati dai mezzi non all’altezza, gli ingegneri iniziarono a costruire forcelle a steli rovesciati sulla scia della Suspenders System II che nel 1991 Robert Reisinger aveva costruito per abbinarla alla San Andreas… Torniamo sempre lì.

Qualche anno dopo un Ingegnere tedesco, Peter Denk, presentò una sua creatura con una corsa mostruosa per i tempi: più di 160 mm al posteriore ma senza un sostegno adeguato all’anteriore, si disse che non era quella la via, un esercizio di stile inutile. Cannondale che era un azienda dinamica ed innovativa, fino al buco finanziario regalato dalla voglia di costruire e vendere una moto da cross che fosse pensata e costruita in alternativa ai colossi Giapponesi, propose nel 1998 una doppia piastra di nome Moto da 80 mm che poteva raggiungere i 120mm nella versione più cattiva. Non ebbe un successo epocale ma segata a metà diede origine alla Lefty. Nel frattempo Brent Foes un nome che entrerà a far parte della scuderia Pro-M per qualche anno aveva costruito nel suo garage tre anni prima la F1, una massiccia a steli rovesciati da 127 mm di derivazione motociclistica al grido di “abbattiamo le masse sospese” .

La costa Californiana era in fermento ed anche Kevin Risse, ex dipendente Fox Suspension, si era messo a produrre la “The Champ” e la “Trixxxy” un’ argentea doppia piastra a steli rovesciati anch’essa, che aveva escursioni da 4,5 pollici ( 115 mm) a ben 7 pollici (178mm). Il chiodo fisso del Biffi sembrava lì dall’essere scardinato dalle ultime novità della Sea Otter Classic.
Da giorni aveva in consegna un telaio innovativo, una vera scossa sismica nel nostro mondo! Robert Reisinger lo aveva anticipato qualche mese prima: una evoluzione della San Andreas con un escursione monstre di 200 mm al posteriore con un leveraggio che permette di variare la curva di compressione. Queste caratteristiche la fiondano nel mondo della DH senza alcuna altra soluzione, ma aveva anche la possibilità di montare una torretta estraibile per il deragliatore della guarnitura fatto che amplificava il campo di utilizzo, cosa che fece scattare la molla del grilletto della dimensione onirica: la bici totale. Finalmente era stato consegnato e il giorno stesso, raccolti tutti i componenti e la prima Trixxxy ricevuta, Gianni si era fiondato in via Delfico per chiedere al Marnati che faceva come di suo il burbero di prepararla per il set fotografico. Tempo per provarla ne avrebbe avuto il fine settimana, ora era ansioso di metterla sulla bilancia…

Daniele sapeva già che cosa volesse e pulendosi i palmi delle mani nel camice si avvicinò allo scatolone dove stampato “MANEGGIARE CON CURA!” campeggiava su tutti i lati. “Non capisco, ma mi adeguo… dai fammi vedere”. Gianni aprì sotto gli occhiali sghimbesci sul naso di Daniele il cartone che conteneva la Shockwave, questo il nome della bimba rossa conturbante e muscolosa con dettagli oro quasi fossero gioielli al collo di una signora, che avrebbe messo in moto una rivoluzione nell’andare in MTB: il freeride! Ma questo non lo sapeva ancora mentre la guardava strizzando gli occhi: l’era delle sospensioni a corsa lunga fuori dal mondo delle competizioni di DH era prossimo a venire.

Marnati era avvezzo alle realizzazioni che Gianni gli faceva fare da tempo: aveva già montato alcune San Andreas con forcelle dalla corsa lunga ed anche tradizionali doppia piastra, ma il limite della sospensione posteriore era troppo evidente ed il monocross non aiutava l’azione avendo corse ridotte. Questa era decisamente meno bella della sua sorella maggiore affinata ed elegante, così un poco tracagnotta e caratterizzata da un telaio scatolato con profilo ad Y innervato in più punti che la rendeva meno oggetto d’ammirazione per i puristi del Marchio, ma in ogni caso in quel momento era il prodotto a corsa lunga che mancava, quello che il Biffi attendeva nonostante lui fosse ed è ancora oggi innamorato della San Andreas.

“Dai Daniele vedi se riesci a finirla per dopodomani, ti chiamerò domani sera per sapere come va”. Gianni, salutò la Sig.ra Marnati, che non si era mossa di un centimetro dalla sua posizione tutta presa nell’ascoltare la loro conversazione, lo ricambiò con un mezzo sorriso compiaciuto abbassando lo sguardo su quello che stava leggendo.
“Oh se ce la faccio te la monterò per dopodomani, altrimenti quando sarà pronta l’avrai… Non è che se dopodomani non c’è il mondo non va avanti. Vivi lo stesso eh…” In cuor suo Gianni sapeva che l’avrebbe ultimata e molto prima di dopodomani, lo conosceva bene: questo suo modo di fare era una straordinaria armatura contro gli imprevisti della vita di fronte a quello che non conosceva e che era lontanissimo dai suoi canoni. Non capiva questi che volevano girare con bici che avevano ben poco che fare con quegli otto tubi che lui aveva imparato a conoscere da bambino, adesso con tutto quello scatolato in alluminio dove saremmo finiti?

Certo li faranno di plastica come ha fatto Bob Girvin, così anche le saldature non avranno più senso e la meccanica andrà a fare un bagno nel Naviglio, poi quella forcella bella, ma a che scopo?. “Di escursione non c’è né mai abbastanza, ricordatelo…” era come se Gianni leggesse nella mente di Daniele, lo conosceva così bene che non erano necessarie domande. “Gianfranco avrebbe citato John Holmes, io invece cito Joshua Bender”
Del resto tutta quella fretta che Papà Gambalunga aveva era più che giustificata: era il mezzo più prossimo ad una moto da fuoristrada che potesse concepire, che potevi pedalare in salita e far scatenare in discesa. Era il sogno di molti di noi che rese distintivo il Pro-M Team : il gruppo fece sua questa filosofia, la portò in giro ovunque da veri ed autentici discepoli epicurei tra una birra ed una risata.

Si tirò la porta alle spalle e lentamente si avvicinò al furgone. Ricevette l’ennesima chiamata, innestò la prima e si allontanò con uno stridio di pneumatici evitando il solito pensionato che attraversava la via Delfico in direzione dell’officina.

Pro-Meide – Libro I – Le Betulle

26 Apr 2020

Libro I – Cap.VII

Le Betulle (il Pian delle … non la casa di cura)

La Valsassina è il giardino di casa dei Milanesi: una valle racchiusa tra il gruppo delle Grigne ad occidente ed il gruppo delle Alpi Orobie che come un falcetto da oriente a settentrione la separano dalle valli Bergamasche e dalla Valtellina. Negli anni del ruggente boom economico Lombardo fiorirono impianti di risalita come i narcisi a primavera grazie alle abbondanti nevicate ed al benessere che crescente permetteva di possedere una casetta nei paesi disseminati ai piedi e lungo il versante orientale: Piani di Bobbio e di Artavaggio, Alpe Giumello, Alpe di Paglio e Pian delle Betulle erano le mete invernali ed estive di tutti coloro i quali fuggivano dallo smog e dalle nebbie della gran Milan.
Essendo cresciuto ed avendo vissuto fino ai tempi delle superiori a Lecco tra escursionismo, alpinismo e moto da trial avevo passato molto tempo a zonzo tra cime e rifugi. La pratica della MTB poi aveva ridato impulso ai ricordi adolescenziali, andavo a ripercorrere con lo spirito di scout i sentieri che, come la ragnatela di un ragno attende la preda, collegavano i rilievi delle montagne alle spalle del lago.

Gianni anche lui, aveva trovato il suo “buen retiro” ai Piani delle Betulle, da anni spendeva le ferie estive in questo alpeggio che offre un’impareggiabile vista sul lago di Como e Lugano e sulle Alpi, a volte il Monte Rosa sembra messo li davanti come fosse un opera di Mosè Bianchi alla Pinacoteca Ambrosiana. Inoltre c’è un incantevole isolamento dal traffico poiché si può salire solamente con la funivia da Margno, essendo da secoli meta dei bovini da latte dei valligiani, i sentieri ed i tratturi più o meno accidentati non mancano, quindi un terreno perfetto per le biciclette. La gita principe, quella che ti metteva alla prova, era un giro di 40 chilometri con 1.900 m di dislivello che partendo da Margno ti conduce a Crandola per poi salire alle Betulle e ad affrontare le ripide balze tritate dal passaggio dei mezzi fuori strada dei pastori che portano al Larice Bruciato dove soli i più ardimentosi e dotati di gamba degna di Hulk le facevano in sella, per poi rilassarti per poco tempo, pronti ad affrontare un tratto poco pedalabile ai tempi dovuto all’erosione del sentiero che ti conduce fino alla Bocchetta di Agoredo.

Qui fu anche il luogo d’incontro con una coppia marito e moglie che incrociarono Gianni mentre saliva solitario: Lei pedalava una Moho rossa fatto che incuriosì parecchio il Presy (questo nick lo dobbiamo a questa Signora tempo dopo) poiché era l’importatore del Marchio. Una chiacchiera tira l’altra e così dopo l’invito fatto di vedersi una prossima volta li ritrovammo il fine settimana dopo in gita con noi e da quel giorno avremmo condiviso molto con Maurizio “Spiderman” e Pinuccia guarda caso “Red Moho” che sarebbe stata la biografa dello zoccolo duro del Pro-M Team.
Qui alla bocchetta avevamo il sentiero martoriato dal passaggio delle vacche quindi a spinta ti devi guadagnare ancor oggi altri metri di dislivello fino alla costa di Biandino, dove maestoso ed inquietante il Pizzo dei Tre signori ti osserva come fosse l’occhio di Sauron, sperando sia benevolo e non scarichi tuoni e fulmini alla nostra calcagna manco fossero i suoi orchi.
Ma con magno gaudio di noi bikers si percorre un sentiero che sembra stato disegnato con un pennello giapponese da scrittura, marcato ma senza sbavature fintantoché lungo la vertigine che si spalanca alla nostra destra il più ardimentoso dei test dei tempi ci attende: el sentier di vacch.

Questa linea è una profonda cicatrice mal rimarginata creata dal passaggio annuale delle mandrie che scendevano nella valle sottostante ad occupare gli alpeggi carichi di genziane proteggendo le spalle al santuario della Madonna della Neve. Stretto ed incassato ti costringe ad un unica traiettoria, i pedali spesso vanno in conflitto con le sponde create dai ripetuti passaggi dei bovini che per nostra fortuna hanno più testa di noi e quindi evitano i cambi di direzione troppo ripidi ma non per questo evitano dei dietrofront a novanta gradi. Ci faceva sentire eroi percorrerlo senza scendere di sella, visto che pur di non graffiare il reggisella Thompson, che era un componente esoterico in quei tempi in attesa di un telescopico che sarebbe arrivato un paio di lustri dopo, non si abbassava (ogni riferimento a persone di cui leggete in questa narrazione NON è puramente casuale). In quel periodo usavo dei pedali Kore leggerissimi e stilosi, peccato che lo sgancio fosse a volte molto complicato se non scalciavi come un mulo e spesso nell’affrontare i cambi di direzione dove mettevi i gioco l’equilibrio tanto eri in avanti con il manubrio, ti ritrovavi al tornante sotto fatto su come una salamella. Quando arrivavi alla fine decisamente provato la gippabile nella valle ti portava fino ad un ponte dove appena superato alla nostra destra il sentiero del Bitto ti invitava a percorrerlo, facendoti fare conoscenza con le mulattiere che avevamo avuto come esame da piccoli trialisti, un duro saggio per spalle dita e soprattutto freni.

Quelli della B5 erano, e non ho mai capito per quale motivo li avesse concepiti in quel modo, a disco idraulici ma comandati meccanicamente: la pinza conteneva l’olio che azionava le pastiglie, la quantità di olio al suo interno non riusciva a dissipare il calore generato quindi dopo un uso intenso e prolungato scendevano in sciopero lasciando ogni speranza di frenata. Dopo aver condotto le danze lungo il sentiero precedendo Gianni ed i compagni di avventura, rientrammo sulla gippabile che rapidamente ci avrebbe condotto a Introbio e, presi come in un indiavolato giro su un anello da speedway, in un sorpasso al limite della penalizzazione i freni decisero di non collaborare, facendomi andare diritto in un curvone a destra. La sfiga ci vede sempre bene! Finii in mezzo alle sterpaglie perdendo nell’ordine: telefono, portafoglio, chiavi di casa e chiavi della moto perché mi ero dimenticato la tasca dello zaino aperta… Questa gita rimase negli annali del Pro-M Team tanto che ogni volta che ripercorriamo il giro ci fermiamo per una preghiera a San Cul@ visto che ritrovai tutto. La parte noiosa di questo splendido giro è il rientro su asfalto fino a Margno, ma eri talmente sfatto che riuscivi ad apprezzare pure la statale. L’episodio mi fece ben comprendere che dovevo passare all’artiglieria pesante quindi il giorno stesso seduti davanti ad una panachè al bar della funivia ordinai una Shockwave a Gianni, una bimba color verde Kawasaki in omaggio a Reisinger ed alle mie moto da cross preferite.

La funivia che caricava le biciclette evitando di risalire pedalando dall’Alpe di Paglio che fatta una volta poteva essere anche piacevole ma che ripetuta più volte diveniva sovrumana, diventò il motore di quello che da lì a poco sarebbe accaduto. Gianni conoscendo i vertici della Società di gestione dell’impianto prospettò la potenzialità offerta dall’arrivo dei Bikers: avevamo in quel momento un vasto gruppo che ci seguiva e la diffusione delle bimbe dalle gambe lunghe aprivano i sentieri che scendevano in valle al Freeride.
Di chirurgia plastica ancora non se ne parlava sui percorsi, quello avevamo e ci piaceva cosi non soffiavi le foglie, non levavi i rami sennonché fossero di traverso, la guida era un concentrato di ignoranza e colpo d’occhio, non avevi il tempo di sbagliare, ti dovevi astrarre e trovare la linea migliore che con il passaggio di altri non sarebbe mai stata la stessa. Ci riappropriammo dei sentieri che con l’uso della funivia erano stati dimenticati. Gianni visto che, settimana dopo settimana il numero dei Bikers aumentava, si mosse coinvolgendo i gestori che avevano sotto gli occhi il centinaio di appassionati che ogni fine settimana si ritrovavano alla partenza dell’impianto e le autorità del Comune poiché andavamo a percorrere i sentieri di loro competenza. Si era creato un incremento di presenze nei bar, ristoranti ed alloggi: un segnale di quello che in questi anni sarebbe diventata una risorsa per le stazioni di media montagna che non avendo più la neve copiosa in inverno si ritrovano a dover chiudere le loro attività. Non si chiamava ancora Bike Park, non ne avevamo l’ufficialità, ma lo era a tutti gli effetti. Certo senza regole precise, senza trail builders, ma con tanta passione, studiavamo le mappe per veder dove fossero i sentieri, da quale alpeggio partissero ed andavamo a riscoprirli per poi condividerli con quelli che avremmo incontrato alla biglietteria incuriositi dal passaparola che si era creato. Alla funivia ci fecero un ingresso preferenziale sul retro visto che la coda multicolore dei guerrieri del fine settimana si allungava sempre più, i tempi di attesa iniziarono a farsi lunghi, non vedevano così tanta gente nemmeno con un metro di fresca in Gennaio.

Questo successo di partecipazione portò Gianni a coinvolgere Gianluca Bonanomi nella costruzione della pista permanente da DH che partiva dalla cima Laghetto: chi meglio di uno dei miti della specialità poteva innalzare il livello? Il Bona disegno sul manto erboso una linea tecnica ed accattivante che non tradiva il suo disegnatore, un tracciato che poteva sembrare senza difficoltà… Ma solo all’apparenza e quella di solito inganna. Eravamo travolti da un turbinio di idee ed una di queste diede vita alla prima edizione della BaraOnda Freeride una gara evento che metteva tutti sullo stesso piano, dove non vinceva chi andava più forte ma chi si avvicinava al tempo che Gianni aveva scelto tra 3 tempi di riferimento e poi estratto a sorte. Non era una manifestazione per “celoduristi” tutto casco integrale e testosterone, ma per chi aveva nella regolarità, nella scelta delle linea di discesa e un discreto cul@  l’asso nella manica.
Abbiamo trascorso Domeniche splendide al Pian delle Betulle, era la nostra casa di cura dell’anima, tra chi rientrava al piazzale della funivia sanguinante manco avesse incontrato un “leone” nel bosco, quello che si ritrovava a spingere la bicicletta su dalla salita con entrambe gomme sbragate ed un giro con le varianti Freak, pericolosissime conoscendo bene il personaggio che le ispirava, verso Margno o Crandola.

Ma come tutto prima o poi ed in questo caso troppo presto il giocattolo si ruppe. Un mattino il postino suonò alla porta di via Lucillo Gaio, 7 chiedendo del Sig. Giovanni Biffi. Aveva una raccomandata del comune di Margno per lui: la missiva intimava di ripristinare lo stato originario dei sentieri che erano stati, secondo la stessa, messi in condizione di non percorribilità dall’uso improprio dei Bikers e l’immediata dismissione della pista di discesa del Laghetto con ripristino del “cotico erboso” dei pascoli .
Gianni non accusò il colpo, gettò la raccomandata sulla scrivania e pragmatico diede tutto in mano al legale. Una cosa però gli bruciava: la piccolezza del gesto fatta da chi pensava ne ricavasse lustro, che non era in grado di vedere oltre la punta del naso. Quello che era stato fatto solo per puro divertimento fu l’embrione dei Bike park che frutta, in alcune altre zone d’Italia, introiti per migliaia di Euro, magari il Pian delle Betulle non sarebbe diventato Finale Ligure, ma chissà se fosse andato avanti…
Le mucche Highlander all’alpe Oro ancor oggi si chiedono che fine hanno fatto quei guardinghi bikers che il fine settimana, gli scandivano con il loro passaggio le ore al pascolo.

Pro-Meide – Libro I – La stagione degli esperimenti viene e non se ne va

25 Apr 2020

Libro I – Cap. VIII

La stagione degli esperimenti viene e non se ne va

 

Mi sa che da piccolo il Biffi giocava con il piccolo chimico… Non con l’allegro chirurgo perché lì bisognava solo rimettere a posto gli organi senza fa prendere la scossa al paziente, non sostituivi fegato o polmoni con altri organi facevi solo il check, stop. Il chirurgo lo lasciava fare a Marnati che rinchiuso nella sua officina mescolando telai, viti, cavi e componenti fin tanto che creava l’essere perfetto, talmente perfetto che mai uno era uguale all’altro perché la perfezione porta sempre ad non essere mai soddisfatti. Ne ho quasi la certezza che la sperimentazione fosse il volano delle prove che gli ho visto eseguire spesso e volentieri positive ma a volte pirotecniche, il tutto al fine di migliorare le sue amate bimbe. Alla teoria ovviamente seguiva la dimostrazione pratica che veniva svolta durante le uscite del fine settimana, normalmente con il resto del Team pronto ad assimilare se positiva con Gianni nel ruolo periglioso di collaudatore, visto che le idee non si limitava ad enunciarle ma soprattutto a darne prova.

Considerato che la MTB era e rimane una passione che darebbe da lavorare ad un sacco di psicologi per dare una spiegazione scientifica della diffusione di questa sindrome che ti mette a riposo fisico per cinque giorni, scartabellando ai tempi le riviste per vedere novità e migliorie dando segni di grave astinenza da prodotto perché non tutti vivono della propria passione e di altro bisogna pur vivere, facendoti anelare in ogni minuto lasciato libero i due giorni dove ti potresti scatenare, sempre che il meteo sia positivo e che gli impegni familiari non ti costringano ad uscite istantanee che normalmente hanno lo stesso sapore di una minestra liofilizzata. Ricordo Bikers che dovevano tassativamente rientrare alle 12,30 della domenica per presiedere il pranzo o che in nome della passione uscivano ad ore antelucane calcolando i tempi degli spostamenti al millesimo di secondo cosa che i distacchi in una gara di slittino sembravano ore. Peccato che quando sei in bici, tutti lo sappiamo bene, il tempo se ne vola alla velocità della luce e quindi il portarsi un amico consenziente che era il capro espiatorio del ritardato rientro in famiglia risultava essere fondamentale. “Amoreeee… scusa ma sono in ritardo, il Freak come sempre se non combina disastri non è lui. Pensa che ha forato tre volte abbiamo finito le camere… Stiamo tornando a piedi… Dai, un’oretta e ci sono”. Pinocchio aveva un naso piccino, piccino a confronto.

Cosi i nostri amici contagiati si aspettavano sempre l’ultima novità ed era un continuo aprire discussioni sulla validità dell’evoluzione non tanto tra di noi ma con gli altri Bikers alimentando querelle che sfociavano in interminabili discussioni quasi ci fossero Passatisti contro Futuristi (noi eravamo da questa parte alla faccia della Nike di Samotracia).
In quel periodo aureo dello sviluppo, come già accennato le geometrie erano un attimino rudimentali e la maneggevolezza il difetto peggiore: il movimento centrale era molto in alto soprattutto sulle San Andreas, Gianni riuscì a dare più stabilità aumentando la corsa della forcella ma nonostante tutto i miglioramenti non erano sufficienti. Come si poteva ancora fare per arrivare al risultato desiderato? Voleva abbassare il baricentro ma non avendo eccentrici che lo permettessero si poteva fare solo una cosa: cambiare il diametro delle ruote e passare da 26 a 24 pollici. La maggior corsa e l’angolo più aperto avrebbero supplito alla minor facilità nello scavalcamento degli ostacoli, il minor diametro rendeva le ruote più robuste, risparmiando rotture ai cinghialoni del Team (come sempre ogni riferimento a persone NON è puramente casuale, è autoreferenziato). Subito dopo quei primi esperimenti iniziarono ad affacciarsi bici con ruote dal diametro 26 sull’anteriore, 24 al posteriore sempre per aumentare l’angolo, ma per Gianni era raggiungere un altro obbiettivo: renderla molto più gioiosa e giocosa di quanto non lo fosse, il progetto aveva ormai più di dieci anni e a parte aver allungato la corsa dell’ammortizzatore, poco era cambiato. Con l’arrivo di ruote da 24 pollici la ricerca dei pneumatici diventò una priorità, pochissime aziende le producevano e fino a quel momento la sezione più in voga era 2.2 considerato un limite per le bici anche nel DH. Eppure un’azienda Finlandese la Nokian, stato che si conosceva allora soprattutto per la Nokia quella dei telefoni portatili, oltre a produrre ottimi pneumatici invernali per auto aveva un buon catalogo di gomme da bicicletta 24 e 26 pollici dove spiccava un modello nominato Gazzaloddi offerto in diametro 3.0 pollici e successivamente in un “modesto” 2.6 . Come Jake “Joliet” Blues dopo aver visto la luce, il Gianni non ebbe pace fintanto che non riuscì ad importarne un lotto, era in missione per conto del divertimento e quello non aspettava.

Come sempre i Passatisti ciclisti, che son sempre la maggioranza, si prodigavano con “assennati” giudizi nei confronti di tutto ciò che usciva dalla loro “confort zone”; tipico di coloro che giusto perchè un loro amico che ne capisce gli aveva detto che non servono ad un razzo anche se non li aveva mai provati i Gazzaloddi. Si spellavano le dita scrivendo post al veleno sui primi forum pur di poter essere portatori di certezze… A volte l’è puse facil metegela in thel cù che nel cò (è più facile convincerlo a mettersi prono piuttosto che stare a disquisire elegantemente sul senso della vita per renderlo edotto… Traduzione a cura dei non Lombardi). Ma essere caparbi ed aver provato sul campo e non sulla tastiera il prodotto diede ragione a Gianni: il Gazzaloddi ebbe un ampia diffusione soprattutto nelle discipline gravity e sulle front da Dirt aprì una strada che sarebbe stata ripercorsa molti anni dopo con le Plus… Le 2.6 sono ormai le gomme di ordinanza delle moderne 29.

Ma tenerlo fermo era come riuscire ad azzittire il Freak, la ricerca non poteva fermarsi, qualcosa di nuovo da testare c’era sempre anche per migliorare un prodotto che si utilizzava sulle Mountain Cycle: i dischi del freno Pro-Stop. In quegli anni era un prodotto molto all’avanguardia per potenza e modulabilità, affidabili e poco inclini alla fatica. I dischi flottanti come da miglior tradizione motociclistica per contenere il peso vista la sezione ed il diametro, erano forgiati in alluminio e poi induriti da anodizzazione metallica dura. Il problema che si presentava era l’usura della stessa che impediva di avere una costante risposta del freno, arrivando a consumare il piatto di alluminio. Questo grazie alle velocità e sollecitazioni che in origine non furono riscontrate, dato che ora avevamo a disposizione mezzi come la Shockwave che ci permettevano ben altre prestazioni. Bisognava trovare un’alternativa che fosse altrettanto in linea con i pesi per ridurre il problema delle masse sospese vista la dimensione dei dischi (228 ant. e 208 post. ndr.). Gianni fece una scelta che sembrava in linea con i requisiti richiesti, sarebbero stati realizzati in titanio, metallo di derivazione aeronautica che nel mondo della MTB aveva preso piede per la realizzazione di viteria, componenti e di telai che sfruttavano il peso specifico e le caratteristiche meccaniche: John Castellano fondatore del marchio IBIS, che ammiro dal 1995, costruì la BowTi con il pregiato materiale: una straordinaria ed incredibile 5 pollici di corsa senza alcuno snodo… fu una delle visioni più estreme dello sviluppo nel settore MTB.

Ben presto i prototipi vennero pronti, il chirurgo li installò e una delle tante domeniche che passavamo al Mottarone Gianni si preparò al test. Per onor di cronaca soffre da idiosincrasia acuta da protezioni a parte il casco ovviamente, non l’ho mai visto indossare ginocchiere, pettorine od alla peggio gomitiere… Quel giorno sembrava essere un normale giorno di prove per vedere se i dischi in titanio erano la soluzione al problema. Il titanio è un metallo molto particolare ha un punto di fusione elevato pari a 1668 °C, resistente alla corrosione, ottimo per l’impiego nella costruzione di macchinari che possiedono parti destinate alle alte velocità con attrito quindi che resistono alla scalfittura come le pale delle turbine dei motori aeronautici: era la scelta giusta esoterica, ma tecnologica e leggera. Il problema del titanio è la trasmissione del calore e del suo indice di durezza, le pastiglie dei freni sono concepite per una pista di acciaio che ha durezze ben diverse, ma quando si sperimenta non sempre ci si focalizza sui dettagli. Si cominciò a scendere precedendolo, lungo uno dei sentieri che portavano alla strada asfaltata con passo allegro e giocoso: visto che avevamo perso il contatto con Gianni ci fermammo in sua attesa. Il nostro collaudatore arrivò poco dopo adducendo il ritardo a poca sicurezza in frenata. Quindi giù in discesa a velocità ancor più sostenute sull’ asfalto verso Gignese. Lo spettacolo che da lì a poco ci si propose era degno dei migliori fuochi pirotecnici sulla costiera Amalfitana a Capodanno. Cercando di rallentare dato che la velocità iniziava a farsi troppo elevata ci vedemmo sfilare dalla Shockwave impazzita con in sella un Gianni urlante che teneva quattro dita sulle leve e che cercava di rallentare in tutti i modi, circondato da una girandola di scintille multicolori generate dall’attrito delle pastiglie sui dischi. Un carro allegorico non fosse che scendeva ad una velocità assurda!
Poi come quasi in tutti questi momenti riuscì a trovare una riva che gli permise di rallentare ed alla fine a fermarsi. “Guarda che la Forestale ci denuncia se metti a fuoco il bosco, poi Capodanno a lì da venire, siamo in Piemonte e certe manifestazioni di giubilo non sono comprese fino in fondo, non anticipiamo i tempi, già “non ci sono quasi più le stagioni di una volta…” Per sdrammatizzare credo che appurato che danni fisici e meccanici non ne avevamo portati a casa un poco di sana presa per i fondelli ci potesse stare…

“Esperimento abortito, qui bisogna passare a qualcos’altro per oggi abbiamo dato abbastanza… quasi vado a fuoco!”. Sorrideva in quel momento, ma l’episodio lo portò a cercare alternative di materiale e poi di prodotto. Da lì a poco un impianto dalle pinze rosse sarebbe entrato a far parte dei montaggi Pro-M e avrebbe messo in pensione gli storici Pro-Stop. “Non è sintomo di intelligenza non cambiare idea e soprattutto se non hai prove oggettive sul corretto funzionamento dei prodotti non puoi esprimere giudizi”. Gianni appoggiò la schiena esausto alla sedia del bar della funivia, la panachè che ci stava occhieggiando sul bancone del bar rimase li giusto qualche secondo.

Lo vedevo assorto, taciturno, la condizione che esprime quando ha un giramento di scatole, sapevo che il Lunedì sarebbe corso a cercare qualcosa altro da testare, non voleva stare senza una nuova sfida pronta per la prossima uscita.
Da quando lo conosco non si è ancora fermato dopo che ha visto la luce…

Pro-Meide – Libro I – La Famiglia si allarga

24 Apr 2020

Libro I – Cap. IX

La Famiglia si allarga

Insomma i giorni sul calendario dal 13 ottobre 1997 erano volati tra idee, collaudi e nuovi modelli che avevano arricchito la gamma di Mountain Cycle, ma Gianni come si usa dire a Milano “El stava nò cunt i man in man” (espressione idiomatica Milanese che rassicura sul fatto che all’ombra della Madonnina son tutti indaffarati nel loro produrre, come api operaie in un alveare. Traduzione per i dotti non avvezzi al dialetto Meneghino), aveva importato dagli Stati Uniti una FOES DHS mono con ben 8 pollici di corsa (203 millimetri al cambio metrico) messi in opera dal sistema LTS, che aveva stravolto i parametri delle inefficienti sospensioni che erano sul mercato. Il suo costruttore Brent Foes un altro “One Man Band” del mondo MTB come Reisinger veniva dal settore motoristico, per essere più precisi era un progettista che aveva lavorato soprattutto con Ford e Nissan nella realizzazione di Pick up a quattro ruote motrici, nel 1992 si sarebbe messo in proprio fondando la Bicycle Division of Foes Fabrication, iniziando a costruire telai percorrendo la strada aperta dal bulldozer Mountain Cycle solo quattro anni prima. La sua intuizione più interessante, senza nulla togliere ai telai monoscocca ed alle forcelle F1 che introdussero le corse oltre i 7 pollici, il perno passante da 30 mm e la barra di reazione per svicolare il freno dall’inibire la sospensione in frenata, fu l’adozione della tecnologia Curnutt per la costruzione di un ammortizzatore nominato Curnutt R che diede vita a quelle che chiamiamo piattaforme stabili. Il mio Guru dei tempi, Richard Cunningham, in un articolo sulla prova della FXR che fu antesignana delle bici da 5/6 pollici (al cambio 127/152 mm decimali esclusi) per uso trail non celando il suo apprezzamento scrisse “The original Curnutt shock outperforms all the other stable platform valve shocks” (l’originale ammortizzatore Curnutt svernicia in prestazioni tutti gli altri prodotti).

Incarnava ciò che Gianni amava di più: l’innovazione e la cura costruttiva che ovviamente scontava un prezzo d’acquisto sicuramente superiore ad altre proposte del periodo, ma rimane un gioco per adulti non sicuramente vado a fare i conti in tasca a nessuno. Ognuno secondo le proprie possibilità fa del denaro quello che meglio crede: Salvador Dalì lo bruciava nel forno del pane perché lo divertiva, ho conosciuto persone che avevano l’abbonamento al Milan ed all’Inter pur di stare tutte le domeniche a San Siro… Non so se lo facessero per pura passione o per stare fuori casa il più possibile, noi amiamo stare sulle montagne ed in mezzo ai boschi, nessuno è perfetto ahimè. Ebbene sì eravamo al cambio di millennio anno 2000, da lì a poco anche la nostra piccola liretta sarebbe andata in pensione, il millennium bug non aveva lasciato traccia nei nostri PC nonostante un panico isterico alimentato dai Media. La voglia di avere un alba radiosa piena di nuove proposte nella MTB spronò Gianni all’implemento del sito web che con lungimiranza aveva riorganizzato ed alla ricerca di prodotti altrettanto esoterici che potessero affiancare Mountain Cycle.

Un’opportunità gli venne data da una conoscenza comune che lo mise in contatto con Guido L. un giovane che si stava mettendo alla ricerca di Marchi da importare che iniziò, grazie all’ introduzione fatta da Gianni, a far arrivare Foes ed un Marchio britannico molto di culto tra gli streeters di oltre manica, DMR bikes tutto acciaio dal peso sostenuto rigorosamente front con manubri in stile BMX e componenti a prova di uso sconsiderato (“Il rigidone paga sempre” GianLuca Bonanomi cit. Valcava inverno anni 2000 dopo una discesa con il freno anteriore fuori uso). Con una DMR Trailstar feci la prima (ed ultima ad oggi) discesa integrale della Marmolada, cosa che ricordo con estrema soddisfazione. Questo era un piccolo tassello, era una nicchia troppo definita ci voleva un prodotto che avesse uno spettro di utilizzo più trasversale non troppo specializzato.

Gianni stava ancora cercando la vera alternativa a Mountain Cycle: avevo regalato l’anno prima l’abbonamento alla nostra rivista di riferimento MBA, quella che cito come fonte ogni due per tre. Oltre ovviamente alle prove che venivano fatte ed agli scatti sui trail degni del direttore della fotografia dei film di John Ford che ti rubavano il cuore mettendoti nella condizione di fare fioretti al fine di risparmiare per riuscire ad andare nella patria della MTB una volta nella vita, vi erano pagine pubblicitarie in stile “Postal Market” usuali nelle riviste di oltre oceano dove i costruttori artigianali facevano proposte di acquisto dei loro telai, componenti o qualsiasi altra cosa entrasse in orbita MTB. Tra tutte le inserzioni, quella che colpì Gianni fu quella di un marchio con un logo in caratteri pseudo-gotici: Ellsworth bikes dal nome del suo fondatore Tony che dando un connotato cavalleresco proponeva un innovativo sistema di sospensione , uno schema che richiama i quattro punti di infulcro con giunto Horst affinato da generosi bilancieri superiori ed uno studio cinematico che sposta molto in avanti della ruota anteriore il punto di incrocio virtuale che definisce la traiettoria secondo cui la ruota posteriore si muove nell’arco della sua escursione : l’Istant Center Tracking meglio conosciuto con l’acronimo ICT.

La reputazione oltreoceano dei suoi telai era molto alta considerato che le unità ammortizzanti non erano ancora al livello attuale dove trovare una bici che non funziona è molto difficile, a quel tempo era difficile trovarne una che funzionasse: vero che l’umano ha la capacità di adattarsi a tutto quindi facevi spesso di una ciofeca (fine espressione di origine spagnola adottata dal napoletano che definisce un qualcosa di poco piacevole) inguidabile diventare la miglior bicicletta da montagna. Ma alcuni come Ellsworth erano e rimarranno dei capisaldi innovativi: non so se queste elucubrazioni fossero frutto di notti in preda a sostanze psicotrope oppure ad un’intuizione fortuita, ma immaginò un prodotto che nel primo decennio del nuovo secolo avrebbe allietato molti Bikers. Negli anni precedenti al 2000 Tony aveva collaborato con un altro produttore californiano, Sherwood Gibson, anima e corpo di Ventana Bikes che ricordo per la raffinatezza costruttiva dei suoi tandem biammortizzati come “El Conquistador” che ispirerà poi “The Witness” di Ellsworth , costruendo un robusto ed efficiente telaio dotato di un affidabile monocross: il suo nome era Joker.

Il tutto faceva intendere a Gianni che era nella giusta direzione, non c’era un importatore in Italia, la filosofia del marchio si collocava precisa nella visione di Pro-M. Nel giro di poche settimane in via Lucillo Gaio UPS recapitò i primi esemplari di Joker, seguiti in breve tempo da tutta la gamma dotata di sospensione ICT. Ho ben stampato davanti agli occhi la Dare azzurra del nostro droppatore seriale il silenzioso Mapo, il tandem del presidente il mitico GoldOne che condussi giù dalla Corona dei Pinci in Ticino avendo Red Moho come ignara passeggera che fortunatamente forse non vedendo davanti a sé vista la mia mole non si pose alcun problema qualcun altro sarebbe sceso alla seconda curva (per profondo senso di amicizia non cito il nome di un’altra vittima mia fatta in quel di Finale Ligure), l’ Epiphany di SpeedyFaustilla che la chiamavamo Fausta ma in realtà era Paola che l’accompagnò alla conquista di vette e gare di 24 ore in solitaria, i Dreadlocks di Buna che rivelava il lato reggae della Joker. Quel logo che ti faceva sentire tanto cavaliere alato Polacco ci avrebbe portato ad una rivoluzione pochi anni dopo, ma avremo modo di raccontarlo più avanti.

Proprio così, erano tempi di fermento di continuo e la rete aveva iniziato ad offrire servizi che fino a due anni prima erano impensabili. Le piattaforme di discussione quelle che erano note come Forum stavano prendendo piede in ogni settore, dagli animali domestici, alla cucina ed ovviamente al nostro mondo: si stava iniziando l’ora del caffè virtuale, che all’inizio si sperava ricalcasse i caffè letterari del diciannovesimo secolo, ma che rapidamente avrebbero assunto la connotazione di un bar sport dove tra urla ed assunzione di certezza i partecipanti si scannavano a colpi di maiuscole. Gianni lo sapete, da quando ne ho memoria, è un malato di tecnologia e nello specifico di elettronica ed informatica e di conseguenza di tutto quello che può aiutare la comunicazione.
La creazione del Forum Pro-M fu un passo importante per tutti coloro che stavano nell’entourage di Pro-M: stanze di discussi su tecnica, novità, eventi e calendario di uscite avevamo compattato ancor più il Racing Team. Da li a breve l’arrivo dei primi navigatori avrebbero fatto sì che tutte le uscite in bici fossero catalogate per difficoltà tecnica e fisica, descrizione del percorso alla ricerca della pura estetica e raccolte in una sezione dedicata agli itinerari di libero accesso a tutti i Bikers che ne volessero fare buon uso. Ad oggi sono centinaia quelli catalogati sino a circa 5 anni fa anche grazie al contributo di tanti amici che con noi hanno pedalato.

A quel momento preciso Mountain Cycle non era il solo marchio in famiglia, un idea di pura follia pervase Gianni: mettere in linea un configuratore che potesse offrire tutte le opzioni per allestire la bicicletta che desideravi. Nel 2000 nemmeno le case automobilistiche più blasonate lo proponevano, non era ancora entrato nell’ordine di idee la customizzazione, il configuratore venne costruito utilizzando Adobe Flash, entrando il vostro Virgilio era un pupazzetto connotato da una folta zazzera che in realtà antri non era che l’avatar di Gianni che da buona guida vi faceva accedere alla costruzione della bimba desiderata: potevi scegliere Marca del telaio, colore, taglia e soprattutto i componenti. In una tendina superiore vedevi peso e prezzo ed inviando un a mail avevi la possibilità di preordinarla… Esattamente come la desideravi o l’ avevi sino ad allora solo sognata.
Moltitudini di Bikers hanno passato ore a fantasticare su come costruirla, il mio più grande rimpianto è che anche questo mondo non esiste più. Ora puoi solo prendere quello che viene tirato fuori dallo scatolone tutto è già pronto come i cibi tolti dal surgelatore.

Resto un fedele sognatore, giocare non ha mai fatto del male a nessuno, anzi ci fa tutti più felici, chiudi gli occhi e vedi il tuo viso sorridere al pensiero di aver potuto esaudire un desiderio anche se reale non era.

Pro-Meide – Libro I – L’ 0m de Bérghem

23 Apr 2020

Libro I – Cap X

L’Om de Bérghem

“Biondo, vieni qui da me tra due ore puntuale, non come il tuo solito, poi prendiamo la Subaru ed andiamo a Seriate, ho un appuntamento”. Dopo due ore circa inforcai la moto e sgattaiolando nel traffico Milanese delle 19 in stile “fast and furious”, suonai alla porta del sette di via Lucillo Gaio. La Subaru Impreza era già pronta con il muso aggressivo, reso ancor più affilato dall’enorme alettone che campeggiava sul baule, rivolto all’uscita, Gianni lesto uscì dalla porta ci tirammo dietro il cancello ed accompagnati dal borbottio cupo dello scarico che mi ricordava il latrato di un pittbull affetto da raucedine, ci iniziammo a muovere nel quotidiano girone infernale del traffico in tangenziale.
“Scusa Gianni ma perché fuori dal casello di Seriate? Con tutti i posti che ci sono, potevi dare appuntamento anche in un bar… Esistono anche a Seriate, magari non fanno aperitivi come in Sempione ma un analcolico lo potremmo anche avere… Ti vedi la scena? Ci fermiamo all’uscita del casello in attesa di qualcuno al buio, noi due appoggiati con rispetto ovviamente alla Subaru che già da lontano gli automobilisti potrebbero scambiare i cerchi per dei fari abbaglianti puntati su di loro, io con il chiodo di pelle e l’orecchino tu sempre a smanettare sul Communicator… L’equipaggio di una volante della stradale di pattuglia potrebbe scambiarci per due pushers usciti dal film Trainspotting.”

Gianni guidava concentrato mi lanciò uno sguardo sornione “Tranquillo tra 22 minuti secondo più secondo meno saremo fuori dal casello di Seriate”. Lo guardai stupefatto tanto per rimanere in tema “Siamo ancora a Cormano mi sembra che forse sei un attimo ottimista, va bene che bisogna sempre esserlo ma 22 minuti… Ho capito mi devo preparare per il salto nell’iperspazio della Milano -Venezia. Unico problema che le mappe galattiche dell’Impero le ho dimenticate nel baule della moto…” Che ci crediate o no volammo nel vero senso della parola: prima che si desse una calmata anni dopo grazie ad una rogatoria internazionale cortesemente recapitata dai Carabinieri per un paio di violazioni del codice stradale in Svizzera, Gianni aveva il pedale dell’acceleratore incollato con la Loctite al pianale… Che fosse con l’auto o con il furgone. Ad intervalli brevi sugli avvallamenti della A4 la Subaru si librava in aria come un F15 in caccia per poi atterrare sul nastro di asfalto con i post bruciatori attivati, il manometro della turbina chiedeva pietà: mi rivedevo la scena del film “The Blues Brothers” dove i due fratelli a bordo di una Dodge Monaco berlina del 74 inseguiti per le vie di Chicago dalle auto della polizia: Elwood dice a Jolliet che un pistone era partito e lui risponde “Per dove?”. Arrivai all’appuntamento con i segni della pressione delle cinture ben tracciati sul Chiodo.

Non dovemmo attendere molto all’uscita, fiocamente illuminata dai fari giallastri del casello e dal passaggio sporadico di qualche autoarticolato, una Opel Frontera rallentò; il guidatore giro il capo verso di noi e fece una brusca inversione ad U parcheggiando di fronte al muso della nostra auto. La portiera si aprì ed una figura massiccia ci venne incontro con tra le mani una scatola di cartone. “Gianni ciao, pòta sei già arrivato, pensavo che il traffico ti avesse rallentato in tangenziale, lì se non vai alle cinque di mattina lo trovi sempre… Varda i magùtt (sostantivo del Lombardo che deriva dal Longobardo Magat, ragazzo, che indicava le maestranze Bergamasche utilizzate nel corso dei secoli nella fabbrica del Duomo di Milano, poi per qualificare i muratori che scendono nella piccola mela per lavorare nei cantieri) che de Bérghem van via a che ura per andà a Milan”. Appoggiò la scatola a terra e strinse la mano a Gianni e guardandomi si presentò: “piacere sono Patrizio”. Di fronte a me stava un uomo intorno ai quarant’anni, corpulento con le gambe leggermente divaricate che terminavano in un paio di scarpe antinfortunistiche slabbrate, la sua testa incassata sulle spalle da pugile metteva in risalto la mascella da Blek Macigno, corredata da un ampio rassicurante sorriso. Aveva addosso l’odore di chi passava il suo tempo chiuso per almeno quattordici ore in officina attaccato a frese ed a torni, le mani segnate da minuscole bruciature memoria degli sfrissi del metallo incandescente che saltavano via come lapilli di lava durante le lavorazioni.

“Dai fammi vedere cosa hai fatto di nuovo e cosa mi vuoi dare!”. Come sempre Gianni senza troppi giri di parole e inutili fronzoli, quelli li lascia da sempre a me, voleva prendere tra le mani l’ultima creazione di Patrizio Bergamelli che era conosciuto ai più nel mondo delle MTB come “Bergman”. Patrizio aprì sotto i nostri occhi curiosi la scatola con la grazia quale un Sommelier scaraffa un Chateau Pétrus del 1990, con cura mise in mano a Gianni una forcella a steli rovesciati mono piastra dove partendo dai para steli campeggiava imperiosamente superbo il logo BERGMAN in un bianco quasi ghiaccio. “Si chiama Alice SC, Alice come il nome di mia figlia è dedicata a Lei, SC per Single Crown: 150 mm di corsa, perno passante da 20 mm, ritorno e precarico totalmente ad aria. L’ho pensata per l’uso freeride, meno ingombrante di una doppia piastra, in ogni caso rigida come nessun altra: ho fatto gli steli da 35 mm” ! Le sue parole trasmettevano sincera soddisfazione per il lavoro eseguito, i suoi occhi brillavano tanto quanto i nostri. “Patrizio domani la farò montare su una bici delle mie, la proverò Sabato o Domenica e poi ti farò sapere cosa ne penso. Magari potresti venire anche Tu: organizzo io. Andremo ai Pian dei Resinelli con alcuni amici… Ti farò sapere”. Ci salutammo e riprendemmo l’autostrada interstellare direzione Milano, dove arrivammo al numero 7 di Lucillo Gaio in un lasso di tempo così breve che ancor oggi son convinto di aver viaggiato a ritroso nel tempo.

Patrizio Bergamelli concreta appieno il nativo della val Gandino una delle valli laterali della Seriana: Leffe il suo paese originario già dal medioevo era conosciuto per i tessuti in panno di lana e sotto la repubblica Veneziana per le armi bianche forgiate dagli armaioli in riva al Romna il torrente che dava energia ai mantici che scivola ancor oggi a sud per affluire nel Serio. Le lavorazioni meccaniche furono la naturale evoluzione ed ancora oggi nonostante le mutazioni dovute al villaggio globale, molte di queste sono fatte qui tra Leffe e Gandino. Come ho già scritto la MTB è una calamita per Archimedi Pitagorici, come quello che crea macchinari fantascientifici per Paperinik, che dall’origine ad oggi (ahimè in maniera meno visionaria ma più economica) ci ha dato centinaia di occasioni per ammirare quanto la passione possa essere un numero elevato alla N. Patrizio si occupava di robotica industriale in un’officina laboratorio a Gandino dove svolazzava un giorno sì e l’altro pure, defecando ovunque, un pappagallo multicolore che faceva molto esotico e che veniva regolarmente punito rinchiuso in gabbia al centro dello spazio lavorativo. A parte il pappagallo in stile la vita e le strane sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, il nostro Archimede Bergamasco aveva un senso per la meccanica fine molto sviluppato: nei primi anni novanta aveva sviluppato una forcella, la PJ Over, dove aveva utilizzato per primo come elemento ammortizzante gli elastomeri micro cellulari a cella aperta a differenza di Manitou e di altri come Fimoco che si affidavano a quelli compatti, molto meno progressivi. In campo nazionale fu una vera rivoluzione, soprattutto perché aveva una corsa da 55 a 100 mm cosa che ai tempi la rendeva unica per caratteristiche strutturali e di assorbimento. Questo successo fece si, grazie anche allo sviluppo di biciclette specifiche, di mettere in commercio una forcella doppia piastra che avrebbe calcato a lungo i tracciati delle gare di discesa: la “The Queen”. Nel tempo venne apprezzata dai più forti discesisti di casa nostra come Fabrizio Cozzi (tanto per fare un nome a caso), regalando ottimi risultati che fecero da trampolino di lancio per quella che sarebbe stata la forcella con più grande diffusione di Bergman, grazie anche al supporto commerciale di Pro-M: l’Alice SC di cui quella sera avevamo ricevuto il primo esemplare.

Come da regolamento, il buon chirurgo (sempre sia lodato) Marnati la trapiantò su una Mountain Cycle Tremor nera come la pece. Gianni aveva tra le mani un prodotto che in quel momento non aveva competitori: era rigidissima in confronto a tutte le altre allora sul mercato, semplice, robusta e soprattutto semplice da manutenere! Il sistema era semplice, aveva due camere di cui una rovesciata che consentivano precarico e ritorno, unico neo era la scorrevolezza che andava aiutata ingrassando i parapolveri affogati sotto una ghiera di tenuta, ma risolto questo dettaglio con un grasso al PTFE facendo una normale manutenzione non si incorreva in un nessun’altra bega. La prima prova confermò dopo l’uscita la bontà della fattura, certo non aveva le finiture che ammiravamo sulle Risse; mi piace paragonare l’Alice SC alla polenta bramata bergamasca, macinata un poco grossa, ma tanto tanto sostanziosa. Gianni conscio di tutto ciò strinse un accordo con l’Om de Bèrghem per la distribuzione dei suoi prodotti: nei due anni successivi, fino all’arrivo della FOX 36 che avrebbe cambiato il mondo delle sospensioni cancellando come uno Tzunami i piccoli produttori di sospensioni negli States e non solo, avrebbe venduto più di un migliaio di pezzi. Ciò consentì a Patrizio e Gianni lo sviluppo e la produzione di una doppia piastra l’Alice DC da 200mm di corsa, la versione adulta da 170mm di Alice chiamata Eye Men in onore di sua moglie che era di origini Nigeriane ed una sorprendente forcella a steli tradizionali con un archetto di irrobustimento veramente minimale (sorella della Ekbo che l’ archetto non aveva nemmeno e che rimase allo stadio prototipale). Quest’ ultima si chiamava Elias dedicata al suo secondogenito. Oltre questa caratteristica aveva un raggio di escursione dai 60 ai 120mm che la rendeva un ottimo componente per un telaio come quello della Mountain Cycle Zen che era appena giunto dalla California: come credo ormai vi sia ben noto, il nostro ardito volontario era sempre a disposizione per le missioni di collaudo dei materiali e pressò il buon Patrizio affinché ne finisse una in tempo record entro Venerdì, perché quella Domenica saremmo andati alle Rive Rosse da Brusnengo, il giro era perfetto per festeggiare il matrimonio di telaio e forcella.

Come sempre parcheggiammo nel piazzale del cimitero che alla mattina alle 9 era mestamente popolato da vedove e vedovi in là con l’età che portavano fiori in una mano e stracci per lucidare il marmo nell’altra, ci guardavano assorti pensando ad una gioventù probabilmente che era un lontano ricordo. Attraversato il paese abbandonato l’asfalto ci si addentrava nei vigneti che esposti a sud in file scomposte che rimarcavano le viti ritorte ci accompagnavano fino alla prima vera salita spezza polmoni che portava al santuario della Madonna degli Angeli da li si aprivano varie tracce, le “speciali enduro” non erano ancora nate; pronti per la prima discesa quel giorno che ci avrebbe portato scendendo in un calanco di arenaria rosso arancione al borgo di Curino da dove saremmo risaliti in direzione delle Rive. Gianni era ringalluzzito in modo particolare quel giorno, sarà stato per l’una o l’altra oppure per entrambi, scese mantenendo una disinvoltura che solo Valentino Balboni (storico collaudatore Lamborghini) avrebbe avuto. Alcuni di noi tra cui il vostro narratore si “ingarellarono” tra i dossi ed i canali del calanco, staccando gli altri tra cui Gianni. Ci fermammo poco prima dell’asfalto battendo il cinque tra noi in segno di giubilo per la divertente discesa, stavamo pronti al solito amorevole sfottò per l’ultimo arrivato quando un grido strozzato ci azzittì. “Ragazzi correte, @zzo muovetevi il Biffi si è smaterializzato!!!!!!!!” Abbandonate le biciclette di corsa risalimmo il sentiero: a terra inerte stava su un fianco Gianni. La faccenda era seria, non si muoveva; lo adagiammo supino non dava segno di essere presente, una non celata preoccupazione investì tutti i presenti. Ma come @zzo aveva fatto a cadere? Il punto non era particolarmente accidentato non c’erano sassi smossi. Feci per prendere la bici che era a qualche metro da lui e sollevandola mi accorsi che si era sfilato uno stelo dalla testa, causa della rovinosa caduta, ma non era importante in quel momento. Dovevamo portare in ospedale Gianni che avendo gli occhi fissi nel vuoto privi di una qualunque espressione non ci dava alcuna risposta alle nostre domande. “Gianni come stai, rispondi!… Mi senti, per favore… Dimmi qualcosa …” La situazione sembrava grave, vuoi che avesse un trauma cranico o altro dovevamo agire subito. “Ragazzi qui il telefono non prende, vado a chiedere qui in paese se mi lasciano fare una telefonata al 118”.

Mi tolsi il casco e mentre mi stavo allontanando in direzione del borgo sentii una serie di suoni sconnessi emessi dalla voce ancor più nasale di Gianni. “Po….Poo…Pooooo”. Il pallore lo aveva abbandonato, lo sguardo era un poco più vigile e cercava di formulare parole. “Non chiamare il 118”. Si era ripreso, l’ipotesi di essere portato via in ambulanza gli aveva fatto ritornare la parola, sembrava lo spaventapasseri del Mago di Oz tutto scomposto a bordo strada: andammo a recuperare il furgone e lo riportammo a casa. “La Zen ha riportato danni???” Questo ci rassicurava, era tornato in sé: il solito Gianni che non chiedeva di essere portato al pronto soccorso ma si preoccupava della sua bimba… Tutto regolare raga.

Dopo i controlli del caso e una notte di meritato ma doloroso riposo Gianni prese il telefono e chiamò Patrizio: “Patrizio sai che sono quasi morto??? Si è sfilato lo stelo dalla testa della forcella, ho fatto un volo pazzesco, ho perso anche per un po’ l’uso della parola, oltre tutto sono blu come il grande Puffo…” Patrizio attese un attimo prima di dare risposta “ Pòtaaa Gianni, mi hai messo fretta e… e… e mi son dimenticato di incollarlo. comunque sei ancora vivo quindi potrai continuate i collaudi.”

Pro-Meide – Libro II – Tito e le sue Bimbe

22 Apr 2020

Libro II – Cap. I – Gli Anni del cambiamento

Tito ed le sue Bimbe

Con l’anno 2000 iniziò un nuovo secolo e ancor fatto più epocale per il genere umano, un nuovo millennio che come da che l’uomo ne abbia memoria fu accolto con festeggiamenti entusiastici in ogni angolo del pianeta. Storicamente la fine e l’inizio di una nuova era hanno sempre portato fortissimi cambiamenti, vorrei solo ricordare cosa accadde nel secolo scorso nel primo ventennio: il primo conflitto globale, la dissoluzione degli Imperi centrali, preceduta da rivolte popolari dovute alle condizioni infime in cui versava la maggior parte della popolazione che costrinse milioni di persone ad emigrare in cerca di fortuna. Questo antefatto portò il mondo alla seconda guerra mondiale che mutò ancora la nostra società offrendoci tra alti e bassi, cinquantacinque anni di pace e prosperità e condizioni di vita che i nostri avi manco si potevano immaginare. Insomma tutto andava verso un radioso futuro si sarebbe pensato ma il film Blade Runner uscito nelle sale nel 1982 ci prospettava un mondo apocalittico, claustrofobico, sovrappopolato, fortemente inquinato, ambientato nel 2019, non era poi così lontano ora quel momento. Ma eravamo pronti a vivere il “decennio breve” in cui la velocità delle innovazioni in tutti i settori lo avrebbe segnato profondamente, iniziato con la diffusione casalinga di internet, che fino a quel momento era ad uso e consumo principalmente delle aziende. Nel 2001 l’iPod era l’oggetto del desiderio degli adolescenti, la Cina afferma il suo status di potenza ottenendo l’assegnazione dei giochi olimpici del 2008, Settembre ci rammenta l’attentato alle torri gemelle che influenzerà ancor oggi gli equilibri mondiali. Da li a poco il 1° gennaio 2002 l’Euro diventerà la moneta unica per 12 paesi dell’Unione Europea, nel 2003 una polmonite atipica, la SARS miete vittime soprattutto in Asia. Reid Hoffman ed Allen Blue ispirati dalla teoria di sei gradi di separazione di Stanley Milgram lanciano LinkedIn, che in parte sancì la nascita il 4 febbraio 2004 di un sociali network che corrode gli smartphone di qualche miliardo di umani: Facebook che nel 2005 verrà seguito da Youtube. Nel 2007 Apple presenta il primo iPhone mamma di tutti i dispositivi che abbiamo in mano il tutto condito dall’immensa crescita economica della Cina.

Quindi vi lascio immaginare che i cambiamenti globali non furono scevri in questo mondo di ludopatici ciclisti fuoristrada, nuove generazioni di ingegneri si stavano affacciando non troppo timidamente nell’industria che ormai aveva radicato la produzione ad oriente prima a Taiwan poi nella Cina continentale, il tempo dei pionieri del far west americano era finito.
I Marchi che poi in questi anni avrebbero consolidato la loro leadership mondiale, avevano puntato sul “designed in USA” per poi demandare la produzione di massa a fornitori Asiatici.
Poche aziende tenevano duro producendo ancora in casa propria e quindi negli USA; una di queste era Mountain Cycle.
La vena innovativa di Robert Reisinger era offuscata da problemi legati al gestionale: non essendo un manager abituato a districarsi tra commerciale, produttivo e Fornitori ma un puro progettista era entrato in un periodo buio dal punto di vista creativo. Oberato da costi sempre più alti, da competitori che avendo preso indirizzi industriali molto in sintonia con la visione Fordiana della produzione di massa (Specialized e Trek in testa) aveva iniziati a pensare e mettere in produzione alcuni modelli che cercando di ridurre i costi avevano perso il fascino del decennio precedente: Tremor e Zen ne sono l’esempio. Poi l’acuirsi del minor riscontro di vendite sul mercato e le conseguenti difficoltà economiche fecero sì che a malincuore il marchio passasse in mano a Kinesis, un gruppo produttore di biciclette che gli aveva già dato una mano con le ultime realizzazioni. Questa faccenda non aveva per nulla messo di buon umore Gianni, proprio per nulla, che vedeva, a ragione, un impoverimento del prodotto e la sua progressiva scomparsa come già visto con le operazioni di acquisizione di Klein e Gary Fisher da parte di Trek… Sembrava tutto già scritto.

 

Visto che le avvisaglie avevano già fatto la loro comparsa la ricerca di un Marchio di livello, perché lo dobbiamo ammettere Gianni aveva gusti decisamente esoterici e non voleva essere uniforme ai Marchi commerciali in voga in quel momento, era nella sua mente in quegli anni. Rimase negli annali la copia ironica del claim ¡ hoy madre ! fatto da un nostro amico Confederato, tale RuPaBiker (che era e rimane nonostante un periodo di eclissi nel mondo del modellismo un fan sfegatato di uno dei Marchi che hanno fatto storia) che a causa delle continue prese in giro da parte del Biffi recitava con gli stessi caratteri ¡ hoy mierda ! …
Spesso è difficile spiegare a chi non ha vissuto quei momenti la ricerca dell’unicità: non si trattava di tifoseria, era un vivere dal profondo la propria bicicletta che era in realtà il prolungamento del proprio corpo per riappropriarci della nostra natura che non è uguale a quella di nessun altro anche se condividiamo lo stesso pianeta. Quindi eravamo attratti da queste realizzazioni, non perché ci sentissimo snob ma solo votati al bello dell’evoluzione: qui si trovavano mescolate quasi come in una pozione lisergica di un brujo tecnica costruttiva, meccanica razionalmente fine e design che è il vero motore della passione. Gianni che di questo viveva dall’inizio dell’avventura di Pro-M, trovò un altro marchio che negli Stati Uniti aveva guadagnato un’ottima reputazione per i suoi prodotti: Titus. Chris Cocalis, il fondatore del marchio già nel 1989 da sconosciuto saldatore di telai, aveva iniziato anni prima disegnando un telaio da BMX per atleti alti di statura visto la difficoltà di trovarne uno adeguato in commercio. In un test pubblicato da MBA intitolato “The bikes of the future” sul podio vi erano due Mantis, la Nishiki Alien e la sua prima realizzazione. Una bici a foderi alti ispirata da un altro grandissimo telaista Chris Chance padre del marchio Fat Chance’s, ma questo ragazzo che da Chicago si era spostato in Arizona aveva fatto vedere le sue capacità che concretizzò nel 1991 quando da saldare i telai nel garage passò a fondare il suo Brand.

Oltre al design innovativo delle sue biciclette, fu pioniere della produzione flessibile ovvero dare a affidabili fornitori la manifattura di componenti, del design di utensili ed ingegneria dei materiali all’avanguardia che trasportò nei suoi telai. Per i successivi dieci anni i suoi progetti furono venduti e costruiti dalle maggiori aziende del settore, addirittura Shimano nel 2008 per il suo gruppo di punta, l’XTR, chiese la sua consulenza. In brevissimo tempo la sua competenza per la personalizzazione, la sua reputazione per la qualità, l’innovazione ed un impeccabile servizio clienti posizionarono Titus nell’olimpo delle biciclette più raffinate del panorama mondiale… Elogiato dalle riviste del settore e vincendo a ripetizione gli Awards di MBA. I gradi di separazioni non sono mai sei lo sapete, aveva disegnato un set di pedivelle per AC che era un marchio importato da Pro-M. Altro dettaglio di non poco conto non aveva un distributore in Italia ed avendo la Pro-M Marchi che stavano con Titus la strada era in discesa perfetta come una pista da sci battuta per una gara di coppa del mondo. Chris Cocalis rappresentava un ulteriore innalzamento dell’asticella, in 15 anni avrebbe messo in produzione 35 modelli di telai, declinati in almeno tre varianti, un delirio di personalizzazione, un ossessione stilistica.

 

La sua grandezza rimane la capacità di utilizzare ogni sorta di materiale che fosse di origine metallica o fibra: il tubo EXOGRID rimane un esercizio ingegneristico unico che lo rende un inno alla scienza dei materiali, un “Tetris” realizzato con estrusi di titanio Ti-6Al-4V e fibra di carbonio che venne utilizzata sulle sue realizzazioni stradali Vuelo e Ligero (e su alcune MTB), perché Titus non era nello specifico solamente un produttore di MTB, aveva esplorato anche in maniera proficua il mondo dei sciusciamanuber. Aveva iniziato ad interrogarsi sulle geometrie dei telai che fino a quel momento non era la priorità dei progettisti, gli angoli si sarebbero aperti cercando timidamente di attuare la via aperta da Gary Fisher con lui aveva intrapreso una strada nuova. Cocalis avrebbe adottato su tutte le sue realizzazioni bi-ammortizzate lo schema a quattro punti di infulcro con giunto Horst coprendo la gamma dal cross country agonistico con la Racer X definita da Jimmy Mac di MBA (scusate se lo cito spesso ma poche persone come lui esistevano e avevano rara sensibilità di collaudo. In Italia solo Roberto “Baffo” Diani storico tester, possiede questa dote) “the best XC machine that enlights your race tickle”. Oltretutto è degno di nota il fatto che nell’ Aprile 2008 una Racer X da 29″ ottenne a Cremona la prima vittoria a 29″ della storia Italiana!  Passando poi alla fantastica mamma delle trail bikes attuali la MotoLite offerta in titanio ed alluminio per arrivare alla Switchblade macchina che ora definiremmo enduro per arrivare alla mia preferita la Supermoto che avrebbe ispirato in questi ultimi anni un telaio ad X di un noto Brand. I suoi prodotti potevano apparire meno “estremi” rispetto a Mountain Cycle e Foes, che utilizzavano dei monoscocca in alluminio, ma erano un concentrato di armonia dove la proporzione diventava bellezza.

Il lasciare Mountain Cycle che ormai era lontano dalla mente del suo creatore ed avviato all’eutanasia in quanto terminale da coloro i quali lo avevano acquisito, fu addolcito a Gianni dall’arrivo i famiglia di queste bimbe, che iniziarono immediatamente a dare soddisfazioni a quelli che di noi le abbracciarono: la facilità di guida, la cura maniacale con la quale erano realizzate e l’infinita personalizzazione sposavano la filosofia di Pro-M appieno. La El Guapo che arrivò in una fase successiva era un passo deciso nella nuova disciplina che si stava affacciando sul balcone delle competizioni, l’enduro: testimonianza della fertilità creativa unita alla visione di prodotto di Chris Cocalis che ancor oggi non ha rivali. Tutto questo faceva intravvedere un cammino solidale e proficuo per entrambi, così fu per lungo tempo ma come spesso accade gli eventi esterni bloccano il passo. Nel Luglio 2006 Cocalis vendette le sue quote a Vyatek Industries che era suo socio sin dal 2001 prendendosi una pausa di riflessione tipica di coloro che nella creatività bruciano tutte le energie che lo porterà a lavorare in seguito nel progetto Pivot USA .
Tutto in linea con il decennio breve che cambierà le nostre vite, volenti o nolenti, facendoci tanto male e consumando lo stoppino della candela della genialità troppo rapidamente.

Pro-Meide – Libro II – Pedalatori e Navigatori per nulla Santi

21 Apr 2020

Libro II – Cap. II

Pedalatori e Navigatori per nulla Santi

Le guerre sono in assoluto la peggior espressione dell’animo umano. Da quando abbiamo memoria storica non so quantificare quante sono state combattute, milioni di esseri umani sono stati cancellati dal pianeta, intere civiltà distrutte in nome della presunta superiorità dei vincitori. I conflitti dalla notte di tempi hanno portato a sviluppare tecnologia per la costruzione delle armi bronzo, ferro e polvere da sparo sono i gradini dell’evoluzione. Nel Mahabarata, saga indiana di oltre 82.000 versi che ne fanno il più imponente poema epico dell’intera letteratura mondiale, Arjuna, figlio del Dio Indra, nella battaglia che cambierà la sua vita e le sorti viene aiutato da Khrisna usando frecce celesti che inceneriscono guerrieri, elefanti e cavalli, l’epica scomoda sempre gli Dei per giustificare il mezzo, ma più terra terra dalle pietre alla bomba H ci sono passati secoli di storia. Ma le guerre non si vincono solo con le armi ma soprattutto con la strategia, dove la conoscenza del territorio dove si va a combattere è determinante per poterne ottenere un vantaggio. La topografia era un arte militare innanzitutto, ma in tempo di pace dall’Impero Romano in poi diventava uno strumento per l’espansione commerciale questo fino al secondo dopoguerra dove le fotografie aeree permisero di avere un quadro dettagliato e veritiero dei territori, soppiantando le mappe militari che gli istituti geografici militari di tutto il mondo avevano redatto e revisionato per anni.

La guerra fredda tra le due superpotenze USA ed URSS, accelerò la ricerca a scopi ovviamente spionistici e la NASA nell’estate del 1971 con gli astronauti dell’Apollo 15 testò un primitivo sistema di navigazione a bordo del Lunar Rover Vehicle per far sì che non si perdessero sulla superficie lunare. Nei successivi vent’anni l’apparato militare Americano attraverso una rete dedicata di satelliti artificiali in orbita dotò le forze armate del NAVSTAR GPS acronimo di Navigation Satellite And Ranging Global Positioning System (gli Americani li adorano ve ne sarete accorti anche in campi più gioiosi quali i sistemi di sospensione delle MTB), evoluzione del Transit, sistema che permetteva alle navi ed ai sommergibili della US Navy di determinare la posizione in mare in qualsiasi condizione meteorologica. Dopo la prima guerra del golfo nel 1991 gli USA consentirono al mondo civile questo servizio con il nome di SPS con ben differenti specifiche da quelli militari che ovviamente erano molto più ricche di precisione e dettagli, non a caso il segnale civile intenzionalmente era integrato da errori che riducevano l’accuratezza della rilevazione.

Infatti per quel decennio di navigatori se ne sentì parlare poco, io nel 1994 ne ebbi un primo assaggio durante una scampagnata sciistica su e giù dai vulcani che costellano l’Islanda dove il nord è drammaticamente influenzato dalla deviazione magnetica: la guida che ci accompagnava ne aveva uno recuperato grazie alla base militare Americana che dagli anni quaranta era lì.
Io abituato ad orientarmi con istinto, bussola e mappe trovai interessante il sistema in quel deserto bianco, salvo accorgermi di questa imprecisione sui punti che arrivava a circa 1000m di raggio, il che mi faceva preferire ancora il mio vecchio modo di navigare. Le cose cambiarono nel Maggio del 2000 quando con un decreto il Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton magnanimo (secondo alcuni detrattori sotto le pressioni di lobbies industriali, ma come sempre sono “solo”illazioni) mise a disposizione la precisione attuale di più o meno 15 metri. Garmin che dal 1989 sviluppava tecnologie per GPS immise sul mercato il GPS 3. Da allora la navigazione nel mondo cambiò, anche per noi pedalatori ovviamente e volete che il nostro dipendente da innovazione tecnologica Gianni non fosse pronto? Eccome se lo era non aspettava altro, questo dispositivo avrebbe permesso la mappatura degli itinerari che nel corso degli anni avevamo pianificato e percorso creando un data base di itinerari ad uso e consumo di dotti e neofiti navigatori, che fu aggiornato per più di quindici anni fino a poter mettere a disposizione 539 tracciati tra Alpi lungo tutto il suo arco, Nord e centro Italia.

Come avete ben capito la tecnologia corre molto più veloce dell’animo umano fin tanto che lo ha reso un attimo obsoleto superato da applicazioni che in modo più immediato sugli smartphone fanno accedere ai percorsi. Per fortuna aveva tempo davanti a sé, quindi aveva un nuovo giocattolo da utilizzare per allietare le uscite del Racing Team che di racing aveva solo la spiccata attitudine alla volata per il ristoro. Nel secolo scorso per fare un percorso prendevi una mappa del IGM (Istituto Geografico Militare anche noi Italiani ci difendiamo per gli acronimi. Cosa pensavate che solo gli Americani li amassero?) 1:25.000 dell’area che ti interessava, controllavi la lunghezza dei sentieri con un righello, il dislivello contando le isoipse e quanto fossero ravvicinate, grazie alla legenda dei segni convenzionali imparavi a riconoscere le fonti di acqua presenti per non morire disidratato ed i rifugi visto che l’obbiettivo era generalmente una grassa fetta di torta o una dissetante Panachè. Per completare il quadro ci mettevi i racconti orali di chi aveva già fatto per appurare che fosse ciclabile e se si aleggiava l’esistenza di linee alternative ti preparavi manco tu dovessi partire per un missione suicida nella giungla Vietnamita.

Primo cambiamento provocato dall’innovazione del nuovo millennio: l’estenuante attesa della triangolazione dei satelliti prima di mettersi in marcia; nonostante l’aforisma di Gotthold Ephraim sostenga “che l’attesa del piacere sia essa stessa piacere”, in realtà era una gran rottura di scatole il dover assistere il risveglio dell’amuleto elettronico: per far sì che si attivasse più velocemente, lo muovevi in una serie di rotazioni che avrebbero insegnato la danza ai Dervisci.
Secondo cambiamento: le macchine fotografice reflex erano in agonia in attesa di passar a miglior vita nel giro di pochissimi anni, le macchine digitali nate solo pochi anni prima avevano prolificato i pixel come i chiodini sui ceppi nei boschi in autunno, quindi avevamo un nuovo strumento per accompagnare le nostre avventure per testimoniare al mondo la nostra esistenza. Gli scatti non costavano più, potevi catturare più o meno tutte le immagini tu desiderassi e cancellare quelle che non ti soddisfacevano. Una cosa che prima potevi fare dopo aver sviluppato la pellicola e visionato gli scatti sempre che tu non avessi bruciato o mal agganciato la pellicola, sorpresa spesso accompagnata dalla caduta di tutti i Santi dal paradiso visto le imprecazioni che ne conseguivano: la Nikon Coolpix 1 entrò a far parte della dotazione necessaria delle gite di Gianni.

Quindi dotato di GPS 3 e di Coolpix non aveva più ostacoli, le pagine del sito avrebbero accolto foto e tracciati come due gemelli eterozigoti e avrebbero creato pagine pubblicitarie che per un decennio furono riconoscibili come pagine Pro-M in compagnia di quel claim nato nel decennio precedente che aveva avuto una serie di fratelli tutti molto simpatici e scanzonati perché noi il Team ed il Presidente “¡ sem minga ciapapùlver !” e per fortuna non ci prendiamo troppo sul serio. Insomma dopo le vestizioni, l’ostensione della digitale sullo spallaccio sinistro dello zaino perché a destra ci stava il catetere del Camelbak ed i riti propiziatori alla ricerca dei satelliti guida, la gita poteva iniziare. Ma un soggetto tutto nuovo era entrato nel lessico del Biker in gita con i compagni di merenda: il Waypoint. Per far capire cosa sia questo sconosciuto è un punto di riferimento utilizzato in qualsiasi tipo di navigazione, in quella terrestre sono coordinate espresse in latitudine e longitudine, tradizionalmente ai tempi del cartaceo si associavano a punti che potessero aiutare la tracciatura del percorso, quali sorgenti, incroci su strade, corsi d’acqua, massi erratici e così via. Con il Gps si entrava nel meraviglioso mondo di Pollicino: qui i waypoint divennero astratti erano come i sassolini lasciati sul terreno del bosco per tracciare un percorso invisibile, quindi mentre ti addentravi nel bosco inesplorato sentendoti come un novello Magellano, ti dovevi fermare per segnare il punto, spesso attendendo che i satelliti si facessero vivi.

Gianni aveva programmato per il Team il giro del Monte Tamaro, un cocuzzolo pelato di quasi 2000 Mt. nelle prealpi Luganesi, una gita che sarebbe diventato un classico come “After Midnight” di Eric Clapton per le variazioni e gli assoli. La salita in parte ti veniva evitata dalla funivia che da Rivera ti porta ancor oggi fino all’Alpe Foppa a più o meno 1600 Mt. di quota lasciandoti gli ultimi 400 Mt. di puro dolore visto le rampe che conducevano alla Capanna del CAS (Club Alpino Svizzero, oggi acronimi come se piovesse) dove una delle migliori crostate ai frutti di bosco delle Alpi ti attendeva sempre generosa pronta ricompensare le gambe di piombo che ti ritrovavi vista la partenza a freddo, come sempre per non tradire la nostra natura godereccia le scelte erano ben oculate. Dopo una fetta di torta ed un bicchiere di Rivella (bevanda Svizzera a base di siero di latte che sta alla Svizzera come il thè con il burro di yak sta al Nepal… Ma la Rivella non provoca assuefazione…) e una serie di scatti fotografici dove eravamo immortalati in pose plastiche che aizzavano il nostro narcisismo, attendevamo il report della gita il lunedì per poter scaricare la foto sulla scrivania del PC e vivere di gloria per tutta la settimana, affrontavamo la discesa in parte comune con la traversata del Monte Lema. In quegli anni per i Bikers era come l’esame di analisi per gli studenti al primo anno di ingegneria, ti dovevi applicare molto per passarne indenne, ci attendeva con molti tranelli.

Il Presidente preso dal suo furore di cartografo digitale si attardava per segnare i waypoint sul tracciato, cosicché ci eravamo allontanati e fuori dal suo campo visivo. In fondo al pezzo più accidentato altro waypoint non troppo astratto sul percorso, una biforcazione senza paline che potessero aiutarti a scegliere il percorso aveva disorientato Gianni, considerato che i telefoni non avevano campo non aveva altra possibilità di lanciarsi a capofitto giù per il sentiero pensando che noi saremmo stati ad aspettarlo sdraiati nella prima radura. Il destino volle che seguendo il nostro navigatore umano avevamo preso a destra salendo visto che ci aveva proposto una variante molto appagante. Mentre noi scorrazzavamo felici, Gianni non vide un grosso buco celato sotto una radice “esplodendo” rovinosamente in avanti. Rialzatosi, si accorse che questa volta non gli era andata bene del tutto… La clavicola si era spezzata, nello stesso punto di frattura di quando si smaterializzò in sella ad una Honda CR250 da cross. Qui però non era in un crossodromo si trovava in mezzo ad un bosco! Dolorosamente cerco di bloccare la spalla con gli spallacci del Camelbak e scendendo a piedi raggiunse una baita dove i proprietari stavano giocando a ping-pong. Gianni con voce fievole disse “Scusate, vi chiedo una cortesia mi portereste al parcheggio della funivia a Rivera?” I due lo guardarono con sospetto, lui si aprì la maglietta mettendo in mostra la clavicola che aveva preso la forma di un attaccapanni. “Oh Signuuuuuurrrrr” fu l’unica cosa che dissero e lo scaricarono davanti a noi che stavamo tanto per cambiare prendendolo in giro per la sua nuova attività di tracciatore.

Questo incidente non affievolì la voglia di condividere i tracciati Gps sul sito, che anzi ebbe dopo la sua guarigione una crescita esponenziale precettandomi spesso come scout e dopo più di vent’anni di escursioni riesco ancora a proporre nuove tracce… Pronte ad essere memorizzate dal Presidente.
P.S. : Vi devo confessare che io ho lo stesso approccio con il navigatore di quello che ho con la pentola a pressione in cucina, ne faccio a meno tanto lo porta Gianni.

Libro II – 2003/2006: l’ epopea del tandem

20 Apr 2020

Libro II – Cap. III

2003/2006 : l’epopea del tandem

Uno spot USA di una bibita gassata, che cercando di scalzare la sua storica rivale cercava di far leva sugli sportivi, degli anni novanta mostrava un gruppo di amici che si trovavano davanti ad un distributore automatico e si interrogavano l’un l’altro chiedendosi che cosa mancava nella loro vita sportiva e di elencare le mirabolanti avventure che avevano fatto. Lasciando perdere il finale scontato, il non aver provato la bevanda in questione nella versione senza zucchero, sembrava il classico chiacchericcio tra noi.
Moto da fuoristrada? Fatto… Ben prima dei tempi di Carlo Cudega (espressione Milanese che indica un tempo più lontano del trapassato remoto). Viaggi in moto? Fatto, mi mandano le cartoline anche le renne di Babbo Natale. Sci estremo? Non vuoi lo avessimo in archivio con le foto di Stefano De Benedetti… Fatto. Partita di raffa al C.R.A.L. dell’Ortica con rischio di essere denunciati per lesioni dei pensionati nel campo in fianco nella mia sopravvalutata bocciata al volo del pallino? Con disonore, fatto. Tutte le declinazioni della Bicicletta? Già dato, compreso la Saltafoss… Ma non tutte, accidenti ci manca il tandem!

Ellsworth era da alcune stagioni nella famiglia Pro-M allietandoci con periodiche nuove nascite. Gianni preso come di sua consuetudine tra azienda, ricerca di nuovi amenicoli elettronici e nuovi stimoli nel suo passatempo preferito che come ormai avete capito è avere in casa nuovi giocattoli da provare, aveva visto che nella produzione del buon Tony c’era l’unico oggetto che mancava per soddisfare le voglie di un Biker: un tandem Mtb bi-ammortizzato! Un breve disquisizione è d’obbligo per far capire come è fatto un tandem ad uso di chi non ha mai avuto il piacere o il dispiacere a seconda che sia il pilota anche detto “Captain” od il passeggero, l’eroico “Stoker”. Il tandem è una bicicletta sulla quale due persone pedalano disposte una dietro l’altra, fin qui tutto regolare. Il “Captain” comanda la direzione ovviamente, cambio e soprattutto i freni! La trasmissione è diversa dalla bicicletta che Voi normalmente pedalate poiché deve trasmettere il moto non da un solo asse ma da due: i movimenti centrali sono collegati mediante catena e corone di ugual diametro perché il sincronismo della pedalata/cambiata è il segreto, senza di essa sarebbe come fare interagire un non vedente con un sordomuto (la citazione è fatta con il massimo rispetto delle disabilità). Quindi l’equipaggio deve avere un ottimo affiatamento ed un allenamento simile quasi fossero coppie di pattinaggio artistico soprattutto per distribuire le forze sulla trasmissione in modo omogeneo, solitamente avere uno “Stoker” più leggero migliora la guida: il vantaggio del tandem? Economizzare l’energia necessaria rispetto il trasporto di due ciclisti su due biciclette distinte. Invece lo “Stoker” deve affidarsi al buon senso del “Captain” ed alla sua insanità di guida, deve essere assolutamente sincrono nei movimenti. Fino a che si gira su asfalto il gioco è banale a parte le velocità che si raggiungono in un lasso spaziotemporale brevissimo,  sempre che non si metta intesta di vincere la forza centripeta buttandosi all’esterno della curva manco fosse un un catamarano in coppa America. In fuoristrada il gioco si fa duro ed hai voglia di giocare… Quindi affidarsi al Dio Mercurio è sempre vivamente consigliato.

Tony Ellsworth aveva in produzione uno bi-ammortizzato bellissimo di nome “The Witness” 6,5 kg di pura bellezza, gemello diverso de “El Conquistador de Montanas” di Ventana che ricalcava il telaio ma differenziati dall’ICT con una corsa utile di 4 pollici ( 101 mm in rateo metrico) per entrambi. Il mercato della Mtb tandem negli Stati Uniti era più di una nicchia, qui da noi visto come un’eccentrica ossessione di qualche impallinato stile Gianni Biffi oppure un gioco snob dei nostri cuginetti francesi alla Roc d’Azur dove avevano dedicato ai tandem un evento, erano sempre “all’ avangarde, chapeau”! Ma visto che mancava nel palmares delle esperienze ciclistiche del Biker evoluto, appena arrivato il telaio nero opaco e faticosamente recuperato la trasmissione (altro dettaglio la trasmissione è composta da due corone a sinistra che collegano i due movimenti e dal gruppo che come sulle bici monoposto sta a destra) e il tubo freno che al posteriore aveva lunghezze fuori standard, lo consegnò per la messa a punto dal Chirurgo nella clinica di via Delfico. Daniele mise in grado, come sempre nei tempi previsti per la degenza, Gianni di provare sul campo il nuovo giocattolo, perché come sempre solo di giocare si tratta con la dedizione quale fosse un lavoro con gli straordinari inclusi.

Evidente è che per utilizzare un tandem bisogna essere in due, di cui uno decida di sua spontanea volontà di essere lo “Stoker” e che accetti che l’altro sia “the Captain”, altrimenti finisce come tra Caino ed Abele. Essendo il Presidente, Gianni di diritto aveva il titolo di Captain”, ma per la grande prova decise di chiedere a Gianluca Bonanomi se volesse correre con lui la “Marathon Bike della Brianza”, storica granfondo Lombarda. La risposta non si fece attendere cosicché si presentarono alla partenza circondati da un migliaio di cross countristi ben depilati e inguainati in tutine di lycra aderenti rimarcate dagli sponsor più improponibili. Ovviamente il Presidente capitano fu declassato a “Stoker” cedendo al Bona, ma non vi era dubbio conoscendo le sue innate capacità di guida, il timone. I ritmi in salita erano per Gianluca normali mentre dietro Gianni un poco di affanno lo sentiva, visto che Gianluca mulinava rapidissimo come di sua abitudine. Comunque avevano riguadagnato posizioni su posizioni anche se erano a spasso “The Captain” aveva la vena chiusa… Infatti da lì a poco Gianni vide la morte affrontando la prima discesa, indicata come pericolosa: credo che fosse come il battesimo del fuoco per un copilota di un bombardiere, si trovava a scendere in picchiata impietrito con il cuore che batteva a 300, con le mani sul manubrio senza poter rallentare la corsa verso una curva strettamente bastarda, ma “The Witness” ai comandi del Bona virò come fosse uno Spitfire in caccia e così riprese a respirare! Era vivo e aveva la riprova che si poteva affidare: ora ben aveva capito il terrore di “Maurizio Spiderman” quando era sul furgone con lui alla guida. Quindi rilassato, si fa per dire, dietro sei sempre in balia degli imprevisti, si apprestava dopo una lunga salita abbastanza scorrevole a scendere a Campsirago ed affrontare il tratto discesistico per eccellenza della granfondo: un sentiero che porta il nome di un pioniere della DH nostrana.
Lungo questa discesa molti scendevano a piedi, ritenendola troppo pericolosa ed impegnativa per cui si formavano tappi, il che innervosiva non poco il “Captain” tanto che appena trovò un varco si buttò a capofitto tra un masso ed una radice fin quando non raggiunse un biker che non aveva certamente il suo passo. Visto che non dava strada come normalmente si dovrebbe fare tra gentiluomini alla guida, Il Bona perse la poca pazienza che ha in questi casi: lo infilò veemente con un mezzo wallride a sinistra gridando “cerca di spostarti perché qui non abbiamo tempo da perdere” scomparendo alla vista con Gianni che ormai si sentiva come uno zainetto sulle spalle di uno studente.

La prima esperienza si concluse positivamente nonostante il quasi infarto iniziale per cui eravamo pronti ad altri tipi di esperienze: scrivo pronti perché anch’io venni rapito dal giocattolo e decisi di acquistarne uno e come me fece poco dopo Mirko, una simpatica manetta nascosta dentro il corpo di un ingegnere con il quale abbiamo condiviso gite e progetti di cui avremo modo di ri-parlare nei capitoli a divenire. Il mio Witness era nero come la Batmobile e quindi non poteva mancare oltre la classico “¡ mamma Mia !” l’incantevole logo “Freak Mobile”. In quegli anni le 24 ore erano molto apprezzate dei Bikers, tra le più piacevoli c’era quella organizzata da un amico, grande tennista e piacevolissimo compagno di gite, Chicco che conoscemmo in quel del Pian delle Betulle, da Cremona. Dopo aver fatto qualche uscita di prova coinvolgendo amici cavie, come quella che feci con il buon Meteora sui sentieri del Vergante, il Racing Team si presentò con ben tre Witness alla partenza della 24 di Cremona del 2006 capeggiati dal Presy con il “Gold One” e dai suoi Stokers pronti come una tropilla (branco di cavalli che vengono alternati durante le competizioni per non affaticarli troppo) di un giocatore di Polo, che avrebbe segnato la storia pubblicitaria della Pro-M con una foto scattata durante una gita del 1°Maggio 2005 che ricordo ancora come quelle che un domani potrò raccontare ai nipoti se ne avrò. Fu un’esperienza al limite di paura e delirio a Las Vegas viste le condizioni del percorso in riva al Po per me in compagnia di uno stoico giovanissimo studente universitario, Franz che si sorbì il mio monologo, tra bicicletta ed urbanistica, di un giorno.

Anche in questo caso nel mondo della MTB nostrano erano i sogni a farla da padroni, con il tandem il gioco era passato ad un livello decisamente intrigante ed impegnativo, lo sapeva bene Gianni conscio che giocando in due bisogna come sempre trovare chi ne abbia voglia. Il limite è dovuto all’essenza stessa della MTB: qui sei tu come unico con le tue proprietà a determinare lo sapete le tracce non sono mai le stesse, quindi trovare qualcuno che voglia essere soggetto passivo trasportato è molto difficile. Ci puoi provare con chi ti accompagna nella vita, ma non è detto che condivida la passione per la bicicletta il che è il 90% dei casi e quindi sei sempre alla ricerca di chi voglia venire in Tandem con te. L’occasione si presentò in un fine settimana di Luglio, gli amici del CAI di Tortona ci avevano invitato a percorrere con loro la “via del sale” da Limone Piemonte fino a Ventimiglia: quale migliore itinerario avremmo potuto trovare per godere a pieno di “The Witness”?
Faceva caldo quell’anno, in pianura si boccheggiava, tutto era stato organizzato come sempre in modo certosino. Il gruppo mediamente omogeneo e io avrei avuto come “Stoker” un buon biker almeno così mi era stato detto da Gianni, ma pochi giorni prima di partire per Limone era caduto slogandosi una caviglia. Fui preso dallo sconforto, non era per nulla facile trovare un sostituto… “Freak non ti preoccupare, ho la risorsa. Pedalare, pedala quindi dovresti essere apposto”. La telefonata mi rallegrò avevo una voglia fottuta di fare quel giro e soprattutto in tandem visto che le strade di origine militare, sembravano essere il terreno giusto.

Il Sabato mattina mi trovai sul tandem un personaggio che chiameremo “l’Innominabile” perché, come avrei potuto constatare in prima persona, avrebbe potuto prendere il posto di Rosario Chiarchiaro nella commedia “La Patente” di Luigi Pirandello. Il sole splendeva radioso, la salita era dura quanto basta ci dirigevamo verso il rifugio Allavena, sudando come cavedani appena pescati. La “Freak Mobile” si stava comportando alla grande, dopo aver catechizzato lo “Stoker” su come comportarsi in curva ed in discesa e su come alleggerire durante la cambiata nessun problema nell’equipaggio mi sembrava all’orizzonte. “Freak ma in discesa questo tandem è incredibile passa su tutto, non hai paura di forare!”: aveva appena detto questo al termine di una lunga discesa che portava a Monesi, sconnessa ma non impossibile. Mi trovai con entrambe le gomme a terra, nonostante le pressioni da stradista che avevo pompato al mattino, può succedere lo so… Ripresa la strada ovviamente con il Biffi che mi dava del cinghiale, la gita tornava ad essere piacevole. “Oggi non uno, non due, ma tre soli! Che giornata fantastica!”: non feci a tempo a controbattere che un muro d’acqua ci investì e una fitta sassaiola di grandine ricoprì i prati manco fosse neve a Novembre. Vabbè, la sfiga ci sta non possiamo esimerci, ci vede sempre bene se volevamo una conferma, ma le cose precipitarono poco dopo. “Freak sai cosa ci vuole adesso? Una bella doccia calda in rifugio poi una bella dormita e domani pedaleremo benissimo!” Avevo qualche dubbio visto le condizioni in cui mi ritrovavo, ma speri sempre in un occhio di riguardo del fato. Così che ovviamente non fu: una doccia a gettoni che doveva garantire l’acqua calda ovviamente non funzionante … Una doccia fredda mi attendeva! Una notte tormentata con l’Innominabile che mugugnava ansimando, che altro mi sarei dovuto aspettare?

Il mattino dopo a colazione l’Innominabile con gli occhi gonfi mi saluta “Freak una notte terribile sono stato aggredito dagli acari dermofagoidi, io soffro di asma e faccio fatica a respirare”… Non risposi, accennai un mesto “mi spiace” facendo spallucce,mi avvicinai a Gianni che aveva sentito tutto. “Gianni io questo lo abbatto. Non per cattiveria, ma per la stessa pietà che provi per un cavallo azzoppato, facciamolo finire di soffrire noi…” Gianni ed i ragazzi vicini scoppiarono a ridere pensando a che cosa ci avrebbe regalato quella Domenica.
Avevo un mantice forato come “Stoker”, ansimava e si lamentava degli acari che come alieni cercavano secondo lui di rapirlo; ascoltandolo speravo solo che Ventimiglia fosse vicina. Ma il bello dell’ attraversata stava per arrivare : avvicinandosi ad un tratto esposto si mise ad urlare come un maiale davanti al norcino. “Che cosa c’è adesso?” sbottai un attimo indispettito “Io… Io soffro di vertigini” disse chiudendo gli occhi. Non ce la facevo più “Mi dici per quale @zzo di ragione se soffri di vertigini vieni a fare una gita in montagna, dove forse essendo una montagna un poco di verticalità c’è, sai giusto quel poco. meglio se ti dedichi alla strada, ci guadagneremmo tutti”. Lo feci scendere dal tandem e prosegui da solo con i presenti che non sapevano se ridere o… Scegliete voi un azione alternativa. Dopo una buona mezz’ora lo feci risalire in sella mosso dal fatto che avevamo un treno da prendere. “Varda che te lasi chì a giugà a tennis in de per teè” gli dissi rubando una strofa dalla canzone “Caino ed Abele” di Davide Van de Sfross e lo lasciai sul lungomare di Ventimiglia.

Il tandem è come la barca vela, mette a nudo le incompatibilità umane, ma se trovi la sintonia navighi senza accorgerti del passare del tempo: ci manca molto.

Pro-Meide – Libro II – Bike and glory (that’s a new story)

19 Apr 2020

Libro II – Cap IV

Bike and Glory (that’s a new story)

Mettiamo che il magazzino di via Lucilio Gaio, 7 fosse il rifugio peccatorum di Gianni ed un sacco di altre persone: chi è senza peccato scagli il primo telaio, dove come in un tempio mitraico si officiavano riti misteriosi di affiliazione alla fede incrollabile nei prodotti esoterici, i fedeli vedevano i prodotti commerciali come il ripudio totale del proprio credo.
Il mondo intorno correva rapidissimo in tutti i campi come tutti ci accorgemmo e dopo quasi un decennio di attività Pro-M non era più solo un passatempo per Gianni che tra le altre cose era impegnato da importanti cambiamenti nell’ azienda di famiglia, era arrivato il momento di una riflessione: agire per evolvere passando ad una fase di apertura ad un pubblico più ampio del tempio pur mantenendo la sua anima di ricerca e di qualità legata alla passione frutto di una visione totalmente lisergica per dare un senso più ampio alle energie che giornalmente venivano profuse. Giocare va benissimo, ma il gioco come ben sapete deve perlomeno tenere accesa la candela…  Quindi il gioco si sarebbe giocato su un altro tavolo e chi aspetta la mossa del croupier ha già perso la mano: le scelte sono come una mano a poker, le giochi sempre prendendole da un mazzo non segnato perché i bari alla fine la pagano perchè le carte poi le devi mostrare al banco.
Non so se Gianni avesse questo pensiero ma da imprenditore non era nuovo e sempre per essere banali non solo una decisione fa la differenza, bisogna anche valutare attentamente le cause e le conseguenze e dove vuoi arrivare in questa maratona come fosse una danza.

Visto che non era la sua priorità in questo momento della sua vita imprenditoriale, non intendeva gestire un eventuale negozio da solo, non aveva il tempo per dedicarsene a pieno, dovette cercare un socio, un appassionato che potesse quotidianamente occuparsi dello spazio di vendita, che avesse le sue stesse o per lo meno simili idee sui prodotti da mettere in vetrina e nella gestione del Cliente. L’occasione gli venne servita come i quaranta punti di apertura in prima mano a scala quaranta, Alberto B. (in arte “Lecter”) un nostro compagno di scorribande era entrato in una fase di stallo esistenziale non solo lavorativo, era stanco di quello che stava vivendo già da tempo aveva espresso in più occasioni il desiderio di una pausa di riflessione e durante uno dei tanti viaggi sul furgone aveva parlato di questo a Gianni: aveva le caratteristiche indicate al ruolo. Impallinato, di formazione ingegneristica quindi a volte come tutti coloro di tale parrocchia ben quadri, senza nulla togliere alla geometria piana.

Come ho già raccontato in occasione della fondazione di Pro-M, Gianni non è uno che cincischia sulle decisioni purché non essendo un devoto metteva sul banco il concetto Buddista dell’immanenza, perché se non muti la situazione con una tua azione questa muterà in ogni caso senza che tu possa controllarla ed il controllo era fondamentale per il progetto.
Lo spazio doveva rispondere a dei requisiti ben precisi: posizionato non troppo lontano da Lucillo Gaio dove al momento i corrieri recapitavano le spedizioni, ad una distanza giusta da Marnati che comunque si occupava dei montaggi e della manutenzione, che non fosse troppo grande visto il prodotto che si sarebbe venduto non necessitava un esposizione da mercato rionale e non ultimo una certa facilità di parcheggio coniugata alla facilità di accesso allo svincolo autostradale di Milano Certosa, visto che Pro-M aveva clienti da tutto il nord Italia e non solo.
Che fosse facile trovarlo con tutti questi requisiti nella Milano del 2005 non lo era, la situazione commerciale era frizzante come l’aria di quell’inizio di primavera, ma un giorno recandosi da Marnati incolonnato prima dell’incrocio vide un cartello appeso ad una serranda grigia abbassata che recitava AFFITTASI in corrispondenza del numero 29 di Via Principe Eugenio. Si accostò mettendo le quattro frecce e si annotò il numero di telefono della proprietà, l’avrebbe contattata da lì a poco appena ritornato in ufficio. “O’ Pate de criature”, il numero 29 sembrava avesse fatto sì che si fosse incolonnato, e distrattamente lo avesse spinto a buttare l’occhio oltre il filare dei platani che aprivano finestre sui palazzi della via… Quel numero avrebbe generato le bimbe del cambiamento (26″ is dead baby, 29″ is the future cit. Gianni Biffi) poco tempo dopo e Gianni come sempre sarebbe stato al centro dell’occhio del ciclone, ma questo sarà come sempre una sua decisione.

Non fu necessaria una lunga trattativa per affittare lo spazio, Gianni chiamò Lecter che altrettanto rapidamente si mise d’accordo su come iniziare il nuovo progetto.
Nell’ Aprile 2005 aprì il Pro-M Store, il primo negozio di Pro-M che venne poi inaugurato ufficialmente il 12 Maggio; una nuova era aveva preso inizio, quella che sembrava un naturale sbocco dell’importazione diretta aprì la strada che poi portò ad un passo più importante qualche isolato più in là, qualche anno dopo. All’ingresso campeggiava sobria l’insegna Pro-M Store “Unusual Bikes and Wear” – “Bike and Glory” che metteva ben in chiaro che cosa ti aspettava mettendo il piede dentro, dopo aver suonato il campanello, ovviamente. Il progetto del design dell’interno era minimale condito da un grigio che metteva in risalto i pezzi messi in mostra. Lo spazio era piccolo appena entrati ti trovavi sulla sinistra una rastrelliera metallica con inserti di legno di un caldo colore mediterraneo sotto lo striscione Ellsworth dove appese ci trovava spazio la collezione di Primal Wear, un abbigliamento ripieno di citazioni al Peyote che rendeva l’onore dei Bikers citando Rolling Stones e Greatful Dead perchè la nostra passione è più vicina alla psichedelica più di quanto lo possiate immaginare, passando per i le maglie dei Marchi più blasonati nel mondo esoterico Californiano. Un inno alla follia lisergica ed al sole che probabilmente aveva brasato la mente del grafico. Come in una vetrina di gioielleria d’arte al fianco si trovavano in bella vista una serie di componenti raffinatissimi che ci sarebbero stati benissimo in “Colazione da Tiffany”, anche se li in Principe Eugenio avevamo solo un paio di bar un poco più terra terra che offrivano quello che desideravamo: siamo dei rustici con l’animo dei signori. Alla fine del percorso una torretta conteneva sotto chiave la collezione degli occhiali più desiderati dai Bikers, a destra una scrivania e sopra il logo Mountain Cycle che occupava 2/3 della parete.

Le bimbe scelte per la prima erano due San Andreas DNA canto del Cigno di Mountain Cycle, una Ellsworth Moment, The Witness GoldOne che aveva fatto già notizia e la ormai nota forcella Bergman Alice SC oltre alla prima Fox 36 di un ribrezzante color marrone che faceva copia con una Fox 40 doppia piastra grigia. Il tutto volutamente minimale ma elegante da “Galleria di arte meccanica moderna” come del resto recitava l’insegna, tutto voleva e doveva essere inusuale. Lecter si sarebbe occupato del negozio e lo fece per tutto l’anno successivo fin tanto che un cambiamento della sua vita sentimentale lo portò a chiudere il suo periodo riflessivo tornando al suo impiego storico, facendo sì che Gianni si dovesse occupare a tempo pieno anche del negozio. In quel periodo e anche in onore dell’apertura del negozio Gianni e Lecter organizzarono con l’ aiuto di Red Moho una caccia al tesoro in giro per Milano con tanto di premi per i partecipanti. La cosa denominata “Oh mia bela Madunina” coinvolse decine di Clienti di cui molti dei quali altri non erano che i fedeli del tempio pagano di Via Lucilio Gaio (che per onor di tassonomia era un poeta latino quindi tutti gli eventi non potevano che avere quest’aurea epica). Una notturna spesa alla massima velocità per raggiungere gli indizi tra chioschi, auto parcheggiate in “ligam style” e rischi in contromano schivando i capannelli di avventori chiassosi fuori dei locali.
Io mi affidai alla “Freak Mobile” con Alberto Skywalker come Stoker, pensavo di vincere facile con il ragazzo che si vantava di essere iperallenato, ma non eravamo mai d’accordo sulla direzione da prendere e come si usa ancor dire per un senso unico in più il Freak perse il premio.

Meglio così altrimenti essendo in due avremmo dovuto segarlo a metà e non so che cosa ce ne saremmo potuto fare…

Pro-Meide – Libro II – Il brutto FATtroccolo

18 Apr 2020

Libro II – Cap. V

Il Brutto Fattroccolo

Sul testo sacro che ormai veniva consultato anche sullo schermo del PC, da qualche tempo ci veniva proposta una buffa bicicletta totalmente rigida talmente sgraziata che a confronto un Bulldog Inglese ha la grazia di un levriero Afgano. Un vero scherzo della meccanica, ma nelle regioni dove la neve scendeva copiosa stava passando da oggetto dedicato a ciclisti che desideravano un mezzo puramente artigianale per competere alla Iditarod Trail. in realtà nasce nel 1973 come gara di cani da slitta che ogni anno si svolge in Alaska sviluppata su un percorso di 1600 Km circa tra Anchorage e Nome con l’obbiettivo di preservare l’uso tradizionale dei nativi Athabaska di utilizzare i cani messi sempre più in disparte delle motoslitte. Iditarod significa “un posto lontano”. la prima edizione con biciclette fu nel 1987 e fu vinta da Mike Curiak in sella ad una Willits con gomme da 3 pollici (un poco di nozionismo superfluo aiuta…). Da quel momento in poi qualche d’ uno inizio a pensare a un mezzo con più ampia diffusione, per permettere ai Bikers di tritare sentieri innevati cosicché l’industria intravide un altro segmento da esplorare.

Comunque l’idea non era per nulla nuova negli anni trenta si erano viste biciclette dotate di “balloon tyres”, ma solo negli anni ’80 un ciclo esploratore Francese, Jean Naud progettò e costruì la prima versione moderna che utilizzò per la traversata da Zinder, città della Nigeria, a Tamanrasset in Algeria. Nel finire di quegli anni in Alaska incominciarono a sperimentare componenti e configurazioni adeguate all’uso estremo, cercando di ottenere un miglior galleggiamento sulla neve. Un artigiano di Anchorage, Steve Baker sviluppò le sue Icycle Cycle saldando due o tre cerchi insieme e di conseguenza dovette creare telai e forcelle che potessero accogliere tali coppie di ruote: nel 1989 in sella a questa realizzazione tre ultraciclisti Roger Cowles, Mark Frise e Dan Bull completarono il percorso di 1000 miglia. A 3.660 miglia di distanza una guida escursionistica del New Mexico, Ray Molina, disegnò cerchi da 3,1 e gomme da 3,5 pollici per dei prototipi fatti realizzare ad hoc per accompagnare i Clienti lungo le dune di sabbia del deserto del sud-ovest: non avendo un produttore si mosse ad Interbike di Las vegas, dove incontrò Mark Gronewald mentore di Wildfire Design Bicycles che così iniziò nel 1999 a costruire piccole serie di biciclette complete con le ruote Remolino coniando il nome Fat Bike. Chi prese veramente la cicciona al lazo fu Surley che produsse la Pugsley (il nome è del fratello rubicondo e paffuto di Mercoledì i pestiferi bimbi presi tra dinamite, ragni ed altri passatempi pericolosi pargoli della Famiglia Addams) con carro asimmetrico e gomme Endomorph da 3,8 pollici nel Luglio 2005.

Gianni come sempre vorace ricercatore di novità, aveva ben sotto gli occhi questa nuova sotto famiglia perché le novità nel fuoristrada erano quasi sempre dominio dell’oltreoceano, molto più lesti ad intraprendere nuovi sentieri e questa volta potevamo scegliere se innevati, sabbiosi o fangosi: non fosse mai di non aver la possibilità di provarne una… La passione spesso conduce a soddisfare le proprie voglie (Faber cit.) lo sappiamo fin troppo bene siamo casi clinici conclamati. Quindi si mosse attraverso i suoi contatti oltreoceano conscio che nessuno in quel momento in Italia si sognava di importare una rigidona che pesava quanto un arco del Golden Bridge che aveva un uso ben limitato, l’Italia era comunque un paese di sciatori accaniti poco inclini all’uso della MTB in inverno, certo negli anni precedenti il Racing Team non si era fatto mancare le uscite in val Roseg per il nobile scopo di degustare la crostata al rabarbaro che creava dipendenza al punto che saresti tornato il prima possibile a mangiarne un’altra fingendo di aver dimenticato lo zaino. Verso il 2005 o 2006 MBA aveva fatto la comparsa nelle edicole in versione in lingua Italiana grazie alla traduzione di Gian Paolo Galloni anima e core di questa costola, che si adoperò per trovarne una al Gianni. Fu così che nel Dicembre 2005 arrivò in Pro-M la prima fat bike importata in Italia e successivamente nel Febbraio del 2006 la prova su Tecno MTB fu eseguita da Francesco Marzari a San Giorgio sui monti Lessini, dove quell’anno le nevicate non si erano risparmiate. La vidi come la favola del brutto anatroccolo, un essere freak che si fa amare per quello che è senza promettere nulla di più.

Mi sono immaginato così la sua nascita: “Quando la prima Pugsley ha visto la Luce, ai suoi genitori un sorriso di circostanza e di mal celato imbarazzo si irrigidì sul volto. Erano tutti lì, in officina dove erano nati tutti gli altri pargoli della famiglia, in attesa dell’ultima nata. Papà John Steel, la mamma Violet Pantone ed i gemelli Nick e Hans Double Compound Rubber, aspettavano l’uscita del product manager per aver modo di poter ammirare il pargolo, che attendevano fiduciosi da più di 20 giorni. Erano rimasti immobili davanti la porta nera che chiudeva alla vista l’officina, dove campeggiava minacciosa la scritta “l’ingresso è vietato alle persone non autorizzate, e chi lo fa entra a suo rischio e pericolo” firmato con un pennarello indelebile dalla mano severa di Frank The Welder, l’uomo che aveva fatto nascere centinaia di telai. Di colpo la porta si aprì e la luce fredda dei neon illuminò il viso di Freddie “pensoatuttoio” Sauce, il product manager, mettendo in risalto la cicatrice che si era procurato quindici anni prima, dolce regalo di un orso che aveva deciso di farsi la manicure sul suo viso mentre riposava nella notte tra una tappa e l’altra di una gara sulla neve in Alaska”. E’ nata Pugsley, una bella bicicletta, è sana, e pesa 14 chili e seicento grammi, sono sicuro che l’accoglierete felici nella vostra famiglia! Violet, John venite con me a far muovere i primi giri di pedale alla piccola…” I due genitori, stanchi e provati dalla lunga attesa chiusero gli occhi sapendo che la piccola sarebbe comparsa lì, in fronte a loro in un battito di ciglia, visto che se era per genesi figlia loro, sarebbe stata veloce, anzi velocissima, come i suoi fratelli, che per onor di cronaca erano i primatisti nel cross country e nell’all mountain. Una brusca frenata fece loro aprire gli occhi. Ma li avrebbero volentieri tenuti chiusi, dopo aver visto la neonata.

“Questa non è mia figlia” borbottò sottovoce John, schifato in viso. Violet emozionata, timidamente balbettò ” Caro, sai come sono i neonati, il trauma della nascita li rende… Poco attraenti, ma poi si farà bella come i suoi fratelli… Non essere così rigido, ti prego…” Lo sguardo dei due genitori si unirono nel guardare Pugsley. Al primo sguardo, non era poi tanto diversa dai suoi fratelli: aveva un esile telaio in acciaio, un telaio classico, saldature impeccabili, senza troppi fronzoli. Aveva preso tutto da papà, non c’è nulla da ridire. Il colore lo aveva preso da Violet, era proprio originale, una tradizione della famiglia Pantone. Ma… Qualche cosa stonava… Quelle grasse grosse ruote, che mettevano in ridicolo il telaio così smilzo, un telaio da atleta! Ecco cosa non andava proprio giù a John Steel, quelle grasse ruote, che sembravano soffrire di ritenzione idrica. “No… Mia figlia non può essere fatta così… Così malamente!” John Steel non si raccapezzava di avere una figlia fatta in quel modo. Per carità, è sempre mia figlia, pensò dando uno sguardo sconsolato a Violet, che appoggiò il suo manubrio sulla sella di Pugsley. Cosa avrebbe potuto fare così sgraziata? Come l’avrebbero considerata le altre biciclette? Sicuramente l’avrebbero sfiancata lungo salite interminabili, punzecchiata e spinta sui single track più tecnici, schernita per la massa in movimento delle ruote, visto che le altre giocavano su pochi grammi di differenza; Lei chili… Di troppo. Oltre tutto aveva due pedali enormi! Non come i suoi fratelli e sorelle che avevano pedali talmente minimali che per vederli ti dovevi avvicinare usando una lente di ingrandimento,erano atleti ed agonisti, volavano lungo i sentieri. “Cicciona, Pugsley è una cicciona!”. Il coro di Nick ed Hans era fastidioso ed insopportabile. Intavolarono un carosello indiavolato, girando tre volte in senso orario e quattro in senso antiorario, non riuscivano a comprendere cosa li confondesse, ma al cinquantesimo giro si fermarono facendo stridere i freni: Pugsley aveva un altro difetto: era asimmetrica! “Mamma, papà! Pugsley non può andare diritta! Lei è storta! Noi con lei non possiamo scorrazzare!” Una fitta al movimento centrale scosse Violet, la piccola oltre ad essere asimmetrica, aveva un movimento centrale larghissimo, che metteva a rischio la pedalata naturale. Avrebbe avuto bisogno di un telaista per essere rimessa in dima, pensò sconsolato John Steel.

Pugsley, nel frattempo era rimasta ferma, imbarazzata a guardare quello che succedeva intorno a lei. Non riusciva comprendere il disagio della sua famiglia, in fin della fiera era sempre una bicicletta, esattamente come i suoi fratelli: era un poco impacciata, è vero, ma aveva una grazia nei movimenti invidiabile. Nel frattempo, era venuta a far visita alla neonata, una vecchia zia nota per la una eccentricità: “Pippa Woodchipper”. Per anni non era stata capita, derisa per le sue forme, per la sua mania per i viaggi, ma lei non si era mai fermata davanti a nulla, anzi scavalcava tutti gli ostacoli. “Violet non ti crucciare. Crescerà e diventerà una gran bicicletta. Lo so, è impacciata, forse lenta, ma determinata. Lei è una bicicletta speciale e troverà la sua strada, vedrai…non sarà agile come i suoi fratelli e sorelle, loro hanno la strada tracciata… Non devi spingerla su sentieri che non le appartengono, ma son sicura che con un bel set di sacche in neoprene, avrà un bel da fare nei viaggi, ed io ne so qualcosa, che dici ?” Violet fece tintinnare il deragliatore e il cambio si mise in tensione ringalluzzita dalle parole di Pippa. John Steel aveva un bel impegno nel tenere a bada i due gemelli. Era visibilmente preoccupato per la diversità di Pugsley. Cercava di avere un aria rassicurante ma del suo profondo sentiva la ruggine che faceva strada. Intanto la piccola cicciottella, seguiva con il suo passo, simile ad un valzer lento, la sua famiglia. Stavano andando a casa, finalmente. Come ben sapete, i figli crescono ad una velocità fotonica, esattamente alla quale i due gemelli scorrazzavano su e giù per i singletrack di mezzo pianeta, deridendo come sempre la sorellina che aveva un altro passo, molto più riflessivo, che la portava a contemplare le bellezze della natura. Lei si prendeva tutto il tempo necessario, ormai l’estate stava volgendo al termine e da lì a poco dopo un autunno di foglie secche e di temperature verso il basso, l’inverno si sarebbe impadronito dei sentieri e delle montagne, nascondendoli sotto una coltre di soffice neve. Pugsley non l’aveva ancora vista, i due gemelli ne parlavano come una terribile pestilenza, che metteva a dura prova il rotolamento dei pneumatici, che attanaglia tutto ed impedisce alla catena di saltare da un pignone all’altro. Lasciando perdere i pedali, che si riempivano di neve e ghiacciavano immediatamente, senza possibilità d’agganciare. Odiavano l’inverno, era chiaro a tutti: nonostante mamma e papà li spronassero ad uscire per allenarsi, loro si rifugiavano in fondo al garage coperti da un telo mimetico, sperando di essere confusi con l’ambiente. Tra una pioggia e una giornata di sole pallido, un ingiallimento di foglie seguito da rapida caduta, l’inverno si presentò alla porta e che signor Inverno quello che conobbe Pugsley!

Per giorni interi la neve scese copiosa, ammantando i sentieri più belli. I due gemelli non uscivano dal garage da almeno tre settimane e per essere meno riconoscibili si erano messi intorno una serie di tubolari da cross country, quelli per un uso su terreni asciutti. Ma John Steel e Violet Pantone erano genitori dolcissimi ma determinati: i ragazzi dovevano sapersi comportare su ogni tipo di terreno e con tutte le condizioni atmosferiche. Quindi, poche ciance e fuori a correre nella neve. Pugsley guardava con interesse quel manto che tutti chiamavano neve: non capiva perché la temessero tanto… Era a vista sicuramente meglio dell’asfalto, o della terra battuta, dove i fratelli terribili scorrazzavano tirando frenate mostruose fino a bruciare le coperture.. .Che giochi stupidi, si ripeteva sempre mentre controllava la pressione delle sue gomme. durante l’estate aveva capito che non poteva girare con le pressioni assurde che usavano le altre biciclette: lei rimbalzava come un pallone da basket sul parquet. Aveva accettato la sua diversità, vero che le altre facevano le carine davanti a lei , ma poi la deridevano appena prendeva la salita che portava a casa. “Che vuoi che faccia, poverina, così grassa, la salita per lei è un vero calvario… Con quelle gomme,non la si può vedere, chi vuoi che se la pigli?” Chis e Cross Twentyniner erano due cugine un poco alla lontana per parte di mamma. Da sempre a dieta, stavano attentissime a non oltrepassare gli otto chili e 500 grammi con tanto di pedali, e aborrivano come una malattia infettiva l’acciaio; loro solo purissimo carbonio, qualche dettaglio in ergal, giusto per essere più chic sulla linea di partenza. Durante l’inverno si riposavano attendendo la bella stagione per ricominciare le competizioni, quindi l’unica cosa che potevano fare in quel periodo era di spettegolare su tutto e tutti, due vere malelingue.

Violet lo sapeva bene, le teneva volentieri alla larga e faceva in modo che rimanessero appese fino a primavera alla rastrelliera. Quel giorno, un sole scintillante squarciò il velo di nuvole che da giorni opprimeva il cielo, un caldo raggio entrò in officina durante la seduta di manutenzione invernale: le due mentre si lubrificavano la serie sterzo con un grasso al litio, punzecchiarono Violet sulle condizioni fisiche dell’ultima nata. “Povera piccola, che futuro avrà, così… Insomma così sgraziata? Nelle competizioni non la vedo proprio, prima che possa partire, le altre hanno già concluso almeno sei giri, sai com’è… Non capiamo perché sia nata così. Non sei stata fortunata questa volta: i due gemelli due campioni e questa…” Violet non si fece prendere alla sprovvista e pur offesa dalle cattive parole delle due cugine, che come sempre avevano un aria di superiorità insopportabile dopo aver vinto tutto quello che c’era da vincere, rispose a tono: “c Crissime, visto che voi di figli non ne avete, forse non riuscite a comprendere quello che Pugsley vive. E’ una bicicletta molto confortevole, si atteggia poco a prima della classe, verissimo è di costituzione robusta, ma meglio qualche chilo in più e stare al riparo di rotture… Che dite? In ogni caso oggi i gemelli e lei usciranno per il loro primo giro sulla neve. Perché non vi aggregate? Due campionesse come voi possono solo che dimostrare quanto la forma fisica sia importante…”

Pusley scosse la catena, tirò le leve dei freni spinse sulle gomme per vedere se la pressione era adeguata e si avvicinò a Violet. Timida era timida, uscire la prima volta sulla neve con due campionesse! Intanto John steel aveva, come sempre un gran daffare per stanare le due pesti, che si rifiutavano di uscire dal loro rifugio. “Fuori, ho detto fuori, oggi vostra sorella ha bisogno di supporto , cercate di essere gentili con lei, guai a voi se vi permettete di prenderla in giro!” A malavoglia i due monelli fecero capolino tra le gomme e scuotendosi la polvere di dosso si piazzarono in centro al garage. Le due cugine come sempre splendide, erano già pronte sull’uscio: la piccola Pugsley, titubante, attendeva in un angolo: “figlia mia, suvvia un poco di energia! So che oggi sarà un giorno importante, ma non temere, le condizioni sono difficili anche per loro. Non ti spaventare e segui le ragazze, loro di esperienza ne hanno da vendere. Per quanto riguarda voi due, lubrificate bene la catena, e non toccate i freni, con il freddo si bloccano! Anche le sospensioni, mi raccomando adeguate la pressione! Pugsley mettiti i manicotti sul manubrio, esile com’è temo si ghiacci. Tesoro, fatti baciare!” John Steel aprì la porta e tutti furono irradiati dal sole, mille scintille si alternavano sui pendii innevati e sugli alberi carichi, pronti a scaricare il peso al loro passaggio. Il sentiero si intravedeva, grazie alle spallucce che si erano formate ai lati tra gli alberi, lo spazio per passare era poco e sicuramente bisognava stare in fila indiana, sfruttando la traccia di chi apriva l’itinerario. Le due cugine, nonostante sinistri scricchiolii che si alternavano ad ogni colpo di pedale, cercarono subito di fare selezione, tanto per dimostrare che erano loro a comandare il gruppo e che i tre fratelli rimanessero in scia quatti, quatti.

Fin tanto che lo spessore della neve era compatto, le due spingevano suoi pedali ossessive, distanziando i gemelli, ma non Pugsley. Timida era partita, non conoscendo il terreno innevato e tanto meno il sentiero: ma subito aveva sorpassato i gemelli, già in difficoltà anche a causa della temperatura che non aiutava le loro sospensioni, anzi le impigriva. Lei invece sorridente, galleggiava leggera come una piuma portata dal vento. Le sue gomme tanto bistrattate la facevano correre spensierata, senza fatica apparente. Le due cugine stavano a pochi metri di distanza da lei e non riuscivano a distanziarla, complice soprattutto la perdita di trazione delle gomme strette e lei piano piano riguadagnava terreno. I due gemelli intanto si ostacolavano senza procedere di un metro, riempiendo gli snodi delle sospensioni di neve che prontamente si ghiacciavano rendendo insensibili agli urti le stesse. Il sentiero si inerpicava nervoso, disegnando dei colpi di coda, con tornanti secchi e fastidiosi: Chris, in un tornante, perdette l’equilibrio e ruzzolò nella neve fresca lasciando a Pugsley, che stava salendo leggiadra come una libellula, affiancò la seconda cugina, la feroce Cross. Quest’ultima, vedendosi affiancare dalla sgraziatissima piccola, tentò uno scatto imperioso spingendo sul suo 3×10, ma il forcing si interruppe nel giro di pochi colpi di pedale. la ruota posteriore continuava ad affondare, ora che la neve aumentava in altezza e faticava a percorrere metri. Pugsley fece scivolare sul pignone inferiore la catena e decisa tentò il sorpasso… Che riuscì al primo tentativo: Cross si era impapinata su un piccolo dente, complice un accumulo nascosto che fermò la sua azione. La nostra piccola non lo vide nemmeno, si involò sul falsopiano staccando tutti gli altri, si lasciò portare dal pendio in leggera discesa, inanellando dei piccoli stacchi dal terreno innevato lanciando in aria spruzzi di neve cristallina. Ringalluzzita dalla facilità con la quale riusciva a staccare la banda tronfia di prosopopea, in verità solo da parte delle due cugine, visto che i monelli avevano girato le ruote e stavano tornando a casa ormai sfatti, si lasciò trasportare nella neve fresca, affrontando dossi, gobbe e alberi che si trovava sul percorso come le porte di uno slalom.

Così non si fermò più. I giorni dell’inverno volavano via con il vento tra gli alberi, inseguì il sole, scorrazzò sotto fitte nevicate, attraversò laghi ghiacciati spaventando i pescatori che fissavano il buco dal quale tendevano gli agguati ai pesci: scappò dagli orsi polari che volevano mangiare i pesci e l’avevano scambiata per una strana foca, correndo al fianco delle slitte dei nativi. Nessuno riusciva a starle davanti, nemmeno i cani più allenati, che cercavano di mordicchiare le sue gomme cicciotte. A casa, Violet aveva immaginato che quella bicicletta così sgraziata, avrebbe trovato la sua via e sarebbe stata lontana a lungo. Di tanto in tanto riceveva una cartolina da paesi che aveva visto solo sul mappamondo, con saluti di altre biciclette a lei simili, che alcuni genitori non sprovveduti avevano generato. Sul forum di Bicycle Book aumentavano i contatti. Tutti avevano preso in simpatia Pugsley. Da buona cicciona era sempre allegra e curiosa, aveva incontrato in un’officina, dove si era sottoposta ad un piccolo lifting alla sella ed al manubrio, Pippa Woodchipper. La zia, che tornava da un giro eterno che divide le montagne ed i deserti, le fece dono di un set di borse da viaggio. “Cara nipote, non avevo dubbio che saresti cresciuta in fretta trovando le tua strada. Certo abbiamo impiegato un poco di tempo per scoprire le tue capacità, tua madre ti ha sempre capito per verità, sapeva che tu sei una bicicletta speciale, la via era tracciata. Adesso, mia cara, la neve sta finendo. Ti aspettano altri terreni, che tu non conosci, come la sabbia. La sabbia è come la neve, solo che non è fredda ma si comporta esattamente come lei: puoi trovarla soffice, oppure compatta lavorata dal vento e per arrivare nel regno della sabbia dovrai attraversare luoghi dove il padrone è il fango, un altro elemento ostico, che cerca di rapirti e trattenerti tra le sue braccia. Stai attenta, Pugsley, ma ora sei pronta per tutto un altro mondo. Tu non sei fatta solo per l’inverno, vedrai che ti troverai a tuo agio ovunque… Volerai come un cigno sopra tutto e tutti. Stai attenta alla pressione, mi raccomando!”

Pugsley, fu scossa da un tremito. Da una bicicletta sgraziata, quale era stata considerata è cresciuta una bicicletta grassottella, ma con tanto fascino e tanti futuri riconoscimenti. Salutò Pippa Woodchipper, imbucò una cartolina per mamma Violet e papà John con gli auguri di buon anniversario e tranquilla, dopo aver fissato le borse, si mise sulla strada, inseguendo il volo dei migratori che come lei cercavano nuovi lidi.

Le fiabe, Andersen insegna non sono sempre a lieto fine: anche le fat bikes sono finite presto nel dimenticatoio delle mode passate in fretta, vittime predestinate di un errore di valutazione di importatori e produttori che ne volevano fare la bicicletta universale pensando di farne un best seller, aspetto incompatibile con lei poiché era un mezzo destinato ad un impiego ben specifico! Così nel giro di pochi anni intraprese il viale del tramonto denigrata da chi gli aveva spergiurato amore eterno, a noi una lacrima fugace ancor scappa pensando al tempo passato con lei nel giusto ambiente !!!

Pro-Meide – Libro II – 29″ is the future

17 Apr 2020

Libro II – Cap. VI

101206 is the number. 29″ is the future

Un giorno qualunque di ottobre 2006 .
Il telefono appoggiato alla destra del mouse trasmise la vibrazione agli avambracci di Gianni, assorto nello schermo stava evadendo gli ultimi messaggi che gonfiavano come ogni giorno la casella della posta non solo quella, prima di scatenarsi in una chiassosa suoneria. Il suo sguardo si posò sul display lampeggiante pensando chi fosse il chiamante senza troppa voglia di rispondere, era in ritardo con lo sbrigare le mail e poco tempo gli rimaneva a quell’ora, voleva andare a casa la giornata era finita: 001… …. … il numero di ufficio di Tony Ellsworth.
“Gianni come stai? I telai che mi hai ordinato non ti preoccupare, lo so siamo in ritardo… Ti verranno spediti entro la fine della prossima settimana. Per farmi perdonare di questo disguido una ho una sorpresa per te, il mio ultimo progetto che ho appena terminato, credo molto in questo prototipo… Il nome… Ah sì… Evolve. Questo nome perchè credo che questo sia il futuro, per lo meno così la vedo io… Dai appena ti arriverà … Scusa, dimenticavo, prima la spedisco in Inghilterra poi te la faccio avere quanto prima dall’importatore Inglese. Intanto ti mando una foto così ti fai un idea. Sono certo che ti piacerà.”

Il cicalino di un nuovo messaggio ricevuto lo raggiunse prima di riporre il telefono sulla scrivania, Tony gli aveva inviato un messaggio FYI (For your information” , gli acronimi distruggeranno l’umanità) con allegato una fotografia. Gianni la aprì a tutto schermo curiosissimo di vederla: al centro una bicicletta nel classico disegno Ellsworth con carro ICT, caratterizzata da una anodizzazione “Midnight Blue” che la faceva vissuta come un paio di Wrangler strapazzati da un cowboy in un rodeo, ma quello che si notava era il diametro ruote! Non le solite 26″ ma qualcosa di molto più grande: le 29″! Per Gianni non erano una novità assoluta, il mondo della MTB era frizzante come una Perrier per quanto riguardava il continuo proporre idee e novità ed anni prima uno dei padri del movimento, Gary Fisher aveva iniziato ad esplorare l’uso di un diametro maggiore di ruote: lo standard 26″ era dovuto al riciclo delle Schwinn Excelsior, biciclette nate per i postini ed i fattorini negli anni trenta poi diventate le biciclette dei ragazzini di tutti gli States. Nei Klunker che negli anni settanta venivano usate per esplorare i pendii del Monte Tamalpais che avevano gomme di larga sezione che permettevano di affrontare i tratti in fuoristrada; di necessità virtù si direbbe, ma non era la soluzione definitiva sempre che esista, dopo prove più o meno felici adottando soluzioni intermedie quali una 26″ al posteriore ed una 29″ all’anteriore utilizzando una forcella Fournales dotata di antiaffondamento modificata allo scopo da Gary Klein. La differenziazione era non inusuale nel motociclismo fuoristrada da decenni, anche per cercare di ridurre la lunghezza del carro posteriore e fondamentalmente per tenere la sella più in basso.

Gary Fischer per confutare la bontà di una sua intuizione, che sarebbe poi passata alla storia come geometria Genesis antesignana delle Foward geometry di Mondraker, (come sempre il detto “nulla si crea, nulla si distrugge ma in questo caso si evolve… E’ il corollario perfetto del teorema della ricerca), grazie alla collaborazione con Rock Shox per modificare la Reba e adattarla ai suoi telai ed al coinvolgimento di WTB Tyres che sviluppò la Nanoraptor da 2.1 x 29”, poté mettere in commercio la prima 29″. Nel decennio del cambiamento le proposte fatte solo sei mesi prima avevano il valore del neolitico per l’evoluzione dell’uomo, ci eravamo trovati all’era del ferro senza passare dal bronzo: molti produttori di pneumatici avevano iniziato piccole produzioni specifiche, le sospensioni erano per il momento il giardino di casa di Rock Shox. Agli occhi di Gianni la Evolve era un deciso passo in avanti, la prima 29″ che offriva un telaio bi-ammortizzato e che faceva intravvedere una destinazione di utilizzo più ampio perché l’intuizione di Fisher era destinata ad un puro uso cross country. Un sorriso soddisfatto si aprì sul viso di Gianni, l’attesa non sarebbe stata vana sarebbe durata quanto la vita di una zanzara ad agosto. Proprio breve non fu perché il Britannico non se ne voleva distaccare, avvinto come era manco fosse l’edera, ma a fine Novembre fu scodellata nella grotta delle meraviglie, pronta ad essere messa sotto esame: certo che il periodo era poco ideale per una prova, eravamo a Dicembre e la neve non si era fatta attendere in montagna, per cui bisognava trovare un itinerario che offrisse le caratteristiche adeguate. Il giro al ponte di Robecco sul Ticino non sarebbe stato teatro di un epico test…

Il telefono mi vibrava nella tasca destra dei pantaloni, ero nel mezzo di una riunione di lavoro improntata sul sesso degli angeli e di che colore fosse la loro tunica talmente soporifera che avevo già trangugiato tre tazze di caffè americano. Con molta nonchalance mi alzai dal tavolo adducendo la più banale delle scuse, ovvero una rapida gita nella toilette causata dall’incontinenza omaggio sgradito da troppo caffè, mi chiusi in bagno e controllai chi mi avesse chiamato trovando la chiamata di Gianni. “Freak non rispondi mai quando serve, ti stavo mandando un sms dove sei? C’è qualcosa che devi assolutamente vedere: è arrivata ieri sta qui in Lucilio Gaio, non sai cosa ti perdi” Risposi bisbigliando che sarei arrivato nel giro di un’ora, tirando lo sciacquone per dare un senso alla mia permanenza nel caso che qualcuno per caso entrasse nei bagni. Dopo aver lasciato senza dolore in convivio che era passato ormai alla scelta del locale per un imprescindibile aperitivo per i risultati raggiunti mi materializzai di fronte a Gianni eccitatissimo all’idea di vedere cosa mi volesse presentare.

A prima vista vi dico non fu amore, le ruotone la facevano apparire non troppo coordinata soprattutto in confronto a quelle che stavano al suo fianco, i pneumatici erano degli smilzi Karma da 2.0 che mi facevano ricordare le zampe di una gru esili com’erano. Abituato ad avere sott’occhio altre forcelle, la Reba da 80 mm con steli da 32 mi sembrava un giro di pezzi revival in una discoteca di provincia. La sospensione posteriore da 100mm mi fece storcere il naso, insomma la trovavo non adatta all’uso che in quel momento stavo facendo della mia Epiphany alla quale avevo abbinato una doppia piastra Maverick da 150mm. Le note positive erano come sempre la cura costruttiva, l’inusuale anodizzazione e la dimensione generale che ne faceva una biciclettona che vista la mia stazza ci sarebbe stata confortevole come un paio di espadrillas. “Giudicare solo da uno sguardo non è sensato… Possiamo dire che esteticamente piace o non piace, tutto qua. Anche la corsa delle sospensioni che a prima vista sembra insufficiente, considerando che la ruota ha un diametro maggiore il che offre un miglior scavalcamento degli ostacoli con più impronta a terra non la vedo cosi minimale, questo è un prodotto nuovo che non ha precedenti per cui solo una prova nei boschi ci darà un indicazione di come si comporta. Differente è differente, bisogna farci l’abitudine. Qui non sei sulla bicicletta ma sei dentro la bicicletta considerando quanto sia al disotto della linea dei mozzi il movimento centrale. Probabilmente la nostra guida sarà diversa.”

 

Differentemente da me Gianni sembrava più convinto… Del resto i suoi deliri visionari passati mi confortavano, ad oggi non aveva ancora perso la voglia di continuare a farne. La scelta cadde per la Domenica 10 Dicembre 2006 su un itinerario che in quegli anni era un must: l’anello Eupilio-Valbrona-Rifugio SEV-Corni di Canzo nel triangolo Lariano, dove avrebbe trovato tutte le situazioni per mettere sotto stress la bimbona. La salita offre tutte le difficoltà del caso, 5 km con una media del 10% con tratti di cemento prima del rifugio con pendenze al 30% ai tempi a spinta per i più, ma questo ti fa guadagnare un giusto ristoro al rifugio. Non aveva dubbi Gianni della bontà della risposta in pedalata anzi gli sembrava di fare anche molta più strada forse a causa del vedersi la ruotona tanto vicina al manubrio, faceva sembrare le nostre dei cruiser, mi sentivo già come un orso al circo sulla bicicletta. Dopo esserci ripresi iniziammo a scendere sulla strada fino a risalire al colletto dei Corni dove ci aspettava la discesa che ha un nome splendidamente evocativo “Spacasass” (spaccassi) un esame di abilitazione non per nulla banale. L’inizio ti fa subito capire che avrai da darti da fare visti i gradini in legno ben umidi: dovete tener conto per chiarezza che i reggisella non erano telescopici e Gianni a differenza di noi cinghialotti era un piccolo Lord non lo abbassava per non rigarlo… Quindi lascio a voi ogni deduzione legata al caso: il cappottamento era più che un opzione. Ma i gradini furono bypassati senza dolore da Gianni che a dispetto delle corse ingenerose ai nostri occhi della Evolve e dei pneumatici dal profilo inesistente non mollava un metro, anzi più scendeva maggior affiatamento trovava e scendendo sul tratto più rotto si prese anche la soddisfazione di passare sopre a massi che ti garantivano un front flip quasi certo già con giù la sella, immaginatevi avendola in cielo… Mentre mi intraversavo per tenere la traiettoria visto che il grip era quello che era, l’Evolve stava diritta senza alcun dilemma e mi faceva incazzare quanto basta ma vedevo un sorriso modello Durban’s quelli con le stelline luccicanti sul viso del Presy: non avevo dubbio che l’esame lo aveva passato alla grande.

“Allora? Tutto bene? Cosa ne pensi? Ma gira… Chi lo avrebbe detto… Poi non ha sospensioni e le gomme sono inguardabili… Però o in realtà sei diventato John Tomac sotto mentite spoglie oppure va proprio bene”. Alla fine della discesa ostica eravamo curiosi come dei macachi.

Gianni che stava rimirando la bimbona si voltò verso di noi allargando le braccia con in viso l’espressione di chi ha vinto un gratta e vinci da centomila Euro e sentenzio: “pensa se avessi una DH con le ruotone !!! 26″ is dead baby, 29″ is the future!!!”

Pro-Meide – Libro II – La stagione dell’ odio saccente

16 Apr 2020

Libro II – Cap. VII

La stagione dell’odio saccente

2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrik è un film del 1968 che è divenuto una pietra miliare del cinema. La sequenza iniziale si apre su un gruppo di ominidi guidati da un maschio alfa che sopravvive nell’Africa di quattro milioni di anni fa, in un ambiente ostile, a fatica . In un giorno di ordinaria sopravvivenza davanti alla loro grotta in modo misterioso appare un monolite nero; gli ominidi venendovi a contato imparano a maneggiare in modo istintivo oggetti ed usarli come utensili ed armi per procurarsi cibo e difendere il proprio territorio eliminando i nemici. L’osso gettato in aria si trasforma nella scena successiva nell’astronave Discovery One che sotto la supervisione del supercomputer HAL 9000, dotato di intelligenza artificiale, è in grado di interloquire con gli umani e di riprodurre tutte le loro attività cognitive con sicurezza e velocità immensamente superiori. Questo salto temporale è una metafora sull’evoluzione, ci spiega l’indissolubile legame che unisce l’uomo alla scienza ed al tempo; ci fa capire che la tecnologia altro non è che il prolungamento della ricerca per migliorare la nostra esistenza senza la quale non ci saremmo mai evoluti, saremmo rimasti nel tempo libero a spulciarci sotto un acacia passando il resto del tempo nella savana Africana cercando bacche, radici con il mal di stomaco per la fame e col cavolo che avremmo inventato nel nostro piccolo la bicicletta, passatempo che ci diverte molto di più delle pulci.

Anche la MTB non sfugge a questo sunto: è l’evoluzione di qualcosa che esisteva. Nel tempo l’abbiamo migliorata attraverso l’immissione di competenze meccaniche, estetiche e soprattutto di sensibilità nella guida che ha permesso l’evoluzione delle prime realizzazioni (la miglior bicicletta sarà quella che uscirà dopo questa e a sua volta sarà sopravanzata da quella che verrà dopo e così all’infinito Gianni Biffi cit.) facendoci capire che erano l’osso buttato in aria dagli ominidi. Quindi lo spazio temporale a volte è relativo ma il Biker fatica a tenere il passo dell’evoluzione, generalmente si siede in una zona di conforto dove si circonda di convinzioni che gli possano trasmettere sicurezza: ogni proposta che va a bussare alla sua porta difesa dai chiavistelli dell’abitudine fa scattare una sorta di stizzita repulsione. Questo lo avevo vissuto fin dalle più remote origini quando la forcella ammortizzata sembrava ai più una bestemmia tirata a Pasqua, i freni a disco un’inutile complicazione e le sospensioni a corsa lunga utili solo sulle motociclette, perchè la bicicletta era e doveva rimanere immacolata come il dogma della natività.

Le chiacchiere da bar sport erano agli inizi molto localizzate, non avevano una diffusione globale, l’uso della rete non ancora sviluppatissima negli anni novanta: nei primi anni duemila i forum specifici nel mondo MTB comparvero sulla rete come pagine di aggregazione e discussione. I leoni da tastiera, celati dietro un nomignolo, avevano iniziato a sbadigliare per far vedere chi aveva nella savana (alla fine si torna sempre lì) la criniera più folta. Il vero problema è che le competenze non si acquistano, sono il risultato di ricerca studio e del mettersi in discussione continuamente: il dubbio permette di evolvere, la cieca certezza porta ad un odio saccente che su nessuna base scientifica né teorica né pratica ha fondamento. Questo è dovuto all’illusione di competenza nota anche come “effetto Dunning-Kruger” dai due ricercatori che descrissero questo pregiudizio cognitivo che affligge in tempi moderni i frequentatori di forum ed social networks, ahimè… Sebbene tutti abbiano un’opinione positiva delle proprie capacità in vari ambiti sociali, alcune persone valutano erroneamente il proprio livello di competenza, credendolo molto più alto di quanto non sia in realtà. Nonostante vengano messi di fronte a prove scientifiche inconfutabili a supporto dei soggetti da loro attaccati, invece di essere perplesse o confuse le persone incompetenti insistono nel sostenere di avere ragione. Come scrisse Charles Darwin ne “L’origine dell’Uomo: ”l’ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza”.

Tutto questo nel 2006 esisteva già, è intrinseco della natura umana, per cui la rivoluzione tecnica delle 29″ che si era affacciata solo nella seconda metà del 2005 divenne soggetto di dispute anche feroci. Premetto che Gianni nella sua visione evolutiva incarna lo spirito dirompente del futurismo e non a caso ha sempre catalogato i mezzi del passato che fossero auto, moto, biciclette o apparati elettronici come “robe vecchie” che avevano un senso solo nel tempo presente che avevano vissuto, questa lo accompagnava, insieme a una curiosità famelica, sempre e costantemente al trovare nuove applicazioni tecnologiche. Le 29″ erano in quel momento la rivoluzione del concetto stesso di MTB, con loro finalmente le geometrie si stavano evolvendo, i movimenti centrali erano sotto la linea dei mozzi, l’utilizzo delle ruotone aveva generato una spinta verso il contenimento dei pesi delle masse sospese al fine di migliorare la guida: che cosa di meglio poteva ritrovarsi tra le mani? Nulla di più affascinante, peccato che il suo sostenere la bontà di tale soluzione lo portò a scontrarsi con moltissimi detrattori mascherati.

Le sue convinzioni erano frutto di due condizioni molto rilevanti: la prima era dovuta al suo voler esaminare con metodo empirico e non soggettivo la reale efficacia del progetto attraverso comparazioni di percorsi, efficacia di azione in ugual utilizzo, slegandosi dall’aspetto puramente passionale per la novità. La seconda, più probante, passava attraverso la sua forma fisica, che grazie all’età, agli incidenti multipli sui campi da cross ed in MTB non era sicuramente degna di un Pro-rider che normalmente guida sopra i problemi, non se ne accorge visto che adotta tarature possibili per lui ed agli Androidi di Blade Runner.  Il fatto di essere nella media dei Biker gli permette, grazie a questi handicap, di poter affinare la sensibilità necessaria per un giudizio oggettivo (il fatto di non essere stato un fuoriquota sul campo non mi ha impedito di diventare un discreto valutatore di giocatori. Arrigo Sacchi cit.) sui mezzi da lui testati. Lo scetticismo generato dalle soluzioni dei nuovi modelli lo accompagnava fedele durante la prova fintanto che spesso si trasformava in entusiasmo. Dopo aver provato e riprovato scriveva le sue valutazioni che come nel caso delle 29″ erano oggetto di lanci figurati di ortaggi (tanto per rammentare l’astio nel confronto del futurismo) fatti con livore da chi era passatista.

Premesso che non aveva l’intenzione di convertire nessuno, ci si avvicina all’illuminazione per scelta personale, i commenti erano sempre e banalmente supportati dall’ignoranza (condizione determinata da incompetenza più o meno colpevole) che tornando all’effetto Dunning-Kruger provoca scontri epici a colpi di tastiera sui forum e oggi specialmente sui gruppi Facebook.

Riguardo alle 29″ i commenti più comuni che ricordo, e che potrebbero essere applicati ancora oggi ad ogni nuova innovazione e/o cambiamento, senza tediarvi troppo, sono stati :

-Non gira, sullo stretto non può girare, sono lente-
-Le possono usare solo quelli alti di statura-
-Sono inguardabili, come si fa a comperarne una… E’ totalmente sproporzionata-
-Lo dici solo perché le vendi e quindi vanno bene per forza (questo nel caso di Gianni è un must ancora oggi attuale)-
-Non hanno futuro, non ne comprerò mai una piuttosto smetto di fare MTB-
-Vanno da tutte le parti i cerchi non sono rigidi a sufficienza-
-Non potranno mai soppiantare le 26′ sono le uniche ruote, non siamo su bici da corsa-

Questi che ho elencato erano solo alcuni dei commenti più ricorrenti, ovviamente motivati da fortissime convinzioni. La stragrande maggioranza di chi scriveva non aveva mai pedalato una 29″, eravamo sempre nella fantastica atmosfera di “me l’ha detto mio cugino che ha un conoscente che ancor prima che uscissero le ha provate, sai mio cugino la sa lunga” oppure “l’ho letto su un forum di gente che ne sa, leggi cosa ha scritto Biker Primigeni quando l’ha provata”. Questi duri e puri nella loro visione avrebbero visto da lì a poco la progressiva estinzione delle 26″ grazie alla comparsa delle 27,5″ che ne avrebbero preso il posto nella linea evolutiva dell’allmountain / gravity continuando a denigrare le 29″ che avevano ormai completato la conquista dell’ambito cross country e trail.

Gianni si trovava giornalmente a disfide che non facevano altro che infiammare la sua verve simpaticamente polemica e che lo portò ad esplorare nuove soluzioni legate al mondo delle 29″ andando come da sua abitudine ad anticipare i tempi, sempre felicemente contestato da chi presumeva di avere la scienza infusa senza mai aver dato un esame.

P:S. : “Chi non ha mai ammesso un errore non ha mai provato nulla di nuovo”
(A. Einstein)