Libro III – Cap. II
La (D)evoluzione gioiosa del Biker
¡ mamma mia ! Abbiamo inseguito l’evoluzione tecnica come bloodhounds all’inseguimento della pista di sangue lasciata del cinghiale nei rovi stagione su stagione. L’estate ma soprattutto d’inverno aspettando che le tracce si trasformassero in una cattura esaltante per la nostra guida: forcelle, ammortizzatori, manubri, caschi, maschere, gomme, dischi, trasmissioni con corone e pignoni con più rapporti. Eravamo di fronte alla prova empirica del big bang dei desideri e della nostra frenesia di volerci ricoprire da tutto questo come fossimo investiti dalla nube piroplastica di un eruzione vulcanica. Il rapporto con la propria adorata bimba si faceva sempre più difficile, che fosse la classica crisi del settimo anno? Avevamo perso la testa per l’ultimo telaio con la sospensione passata da 120 a 130mm? Il passaggio da nove a dieci rapporti ti aveva fatto lo stesso effetto degli spinaci a Braccio di Ferro, pronto a salvare la tua amata? La regolazione della compressione a bassa ed alta velocità della forcella appena presentata come fosse la playmate del mese sulle riviste, aveva provocato pulsioni adolescenziali? Forse era arrivato il momento di un periodo di ripensamento per riequilibrarsi, tornando poi a sentirsi libero da tutte quelle sovrastrutture che ci eravamo messi addosso, per poter ritornare ad essere nudi e correre felici verso una nuova avventura.
Il denudare non tanto se stessi ma la bicicletta per renderla nella sua forma più essenziale, minimale e diretta aveva come sempre preso vita in California dove negli anni sessanta i figli dei fiori erano il risultato della contestazione di una società votata al consumo che non badava molto ai bisogni essenziali: del resto passavano gran del loro tempo nudi. Questo spirito minimale era nel patrimonio genetico di moltissimi Bikers della mia generazione perché quando eravamo piccoli le biciclette avevano un solo rapporto, i cambi erano predominio di quelle da corsa che sotto il pantaloncino in lana dei campioni sfrecciavano durante il giro di Lombardia; l’istante del passaggio era esaltato dai comandi cromati che ti facevano l’occhiolino dal tubo obliquo. Noi al massimo potevamo sognare di avere una Saltafoss con il cambio a leva a metà strada tra il sellone ed il manubrio in stile BMX con tanto di tabella portanumero ma giravamo con una Roma Sport, spogliata di tutto. Crescendo ci saremmo dimenticati di tutto questo, salvo ripensarlo quando salimmo in sella alla prima MTB che di quello aveva poco e niente salvo il piacere di riempirsi di polvere lungo i sentieri in riva al fiume.
A metà del primo decennio del terzo millennio, l’arrivo delle 29″ fu un tocca sana per la (d)evoluzione della bimba: si aprì l’epoca d’oro delle MTB con un solo rapporto note anche come Single Speed (SS). I “Bikers Dropout” della California volevano riprendersi la semplicità con pochi orpelli dopo aver passato anni ad ingollare l’evoluzione tecnologica erano nella fase postuma della sbornia: per disintossicarsi avevano bisogno di robusti telai in acciaio o in raffinato Titanio. I più ortodossi quelli che si erano pentiti come in un incontro degli alcolisti anonimi, consideravano la forcella ammortizzata un insulto alle caratteristiche meccaniche delle tubazioni quindi forcelle come la Truss di Jones Bikes erano il segno distintivo di chi voleva anche un certo confort di marcia senza mettere su troppo peso e soprattutto niente cambio perché come diceva sempre Henry Ford “meno componenti ci sono in un auto, meno rotture avremo”. Le ruotone avevano ed hanno un vantaggio innegabile, una volta che ti metti in moto, come sapete sono più lente in partenza per l’effetto volano dovuto alla dimensione ma ti fanno fare molta più strada a parità di rotazioni, seguendo questo postulato Black Sheep Bikes presentò nel 2008 una 36er SS in titanio. Questo dettaglio potrebbe sembrare un concetto assodato e lapalissiano ma fa la differenza se utilizzate una trasmissione single speed dove generalmente si utilizza un rapporto 2:1 (32 denti la corona abbinata ad un pignone da 16 questo è un rapporto molto utilizzato, poi sta al biker scegliere una rapportatura adeguata in base al proprio allenamento ed alla durezza del percorso). Pedalare senza l’uso del cambio fa si che il cambio siano le vostre gambe che variando l’intensità di pedalata, vi permettono di affrontare anche i percorsi fuori strada.
Altro obbiettivo della (d)evoluzione gioiosa del binomio biker, bimba è il peso: a parte mettersi a dieta che comunque è positivo al di là dell’uso della single speed da parte del Biker la scelta dei componenti si riduce drasticamente, visto che ci sono manettini, pacchi pignone, cambio etc. etc. Dopo aver intrapreso questa confessione, vedete da qualche tempo come demoni le sospensioni ed i reggisella telescopici con il risultato che avete raggiunto la comprensione del Mu, concetto del buddhismo Zen, ovvero la visione dell’essenza. Per esaltare questa semplicità dando un poco di confort al monaco Biker i manubri presero forme inusuali rispetto a quelle che contraddistinguevano le MTB: “moustache”, “demimoustache”, “H-bars”, “Lone Star” erano soluzioni che facevano bello sfoggio, sempre con minimale rispetto degli insegnamenti in testa alle forcelle.
Gianni a differenza dei Anabattisti Californiani non era un pentito dell’evoluzione, non aveva lasciato cambio e deragliatore per una sbornia, è notoriamente astemio. Questa nicchia lo affascinava, soprattutto perché intrecciava raggi e catena con le 29′ sua folgorazione passionale e giocare con la semplicità faceva bene anche al Marnati, il braccio meccanico che di scatto fisso e mono-rapporti ne era grande cerusico, grazie ai suoi trascorsi da meccanico “Pistard”. Così decise di avere nella scuderia Pro-M componenti da abbinare ai telai dedicati che aveva in mente di proporre: individuò nella componentistica White Industries (Doug White lo aveva conosciuto nel lontano 1998 al Bike Festival di Riva del Garda), un perfetto e raffinatissimo produttore del nord della California, quella che faceva luccicare gli occhi sempre nel rispetto del pensiero Zen. La cura della lavorazione era evidente nelle finiture dei pezzi: i mozzi Eno, i rocchetti SS, i pignoni a scatto fisso, le corone per la ricchezza di dettagli ti lasciavano senza fiato, nemmeno fossi di fronte ad una scultura del Bernini. Spesso ci dimentichiamo che l’artigianato è una delle sfaccettature dell’arte: lo scultore usa il marmo per dar forma alla sua ricerca del bello, l’artigiano più modestamente usa il metallo in questo caso per creare forme che siano funzionali ed eleganti come giusto che sia un opera di arte moderna quale una bicicletta SS.
Quindi iniziarono nella sala operatoria di Via Delfico l’assemblaggio di svariate 29″ dotate di componenti White Industries che poi avrebbero dato modo a Gianni di eseguire prove e collaudi per trovare i rapporti adeguati al fine di non lasciare un polmone sui sentieri di montagna o sulla montagnetta di San Siro che per i collaudi sembrava fatta apposta. Visto che i componenti non erano facili da recuperare in Italia, il negozio di via Principe Eugenio 29 era diventato un punto di riferimento per gli appassionati, che anche da noi iniziavano a farsi vedere: come tutti quelli che praticano discipline di nicchia, ne so qualcosa dato che pratico il Telemark da quando salutai Erik il Rosso in partenza per la Groenlandia dal fiordo di Bergen, si tende a fare gruppo si hanno rituali quasi magici e generalmente cerchiamo il “Druido” che ci possa dare la pozione per la nostra passione. Così Gianni da druido certificato entrò in contatto con Stefano S. aka Spiedo, il capo tribù dei Los Lobos della Bassa, un gruppo di veri rustici adoratori delle single speed in quel della provincia di Cremona. Fu un incontro tra officianti più che tra cliente/negoziante, si trovò subito una sintonia che sfociò in uscite di pura goliardica complicità e nella diffusione del movimento anche attraverso l’abbigliamento ideato da Spiedo il “BICICLISTA”, un modo di vestire abbigliamento tecnico che fosse piacevole come un giro in bicicletta, caratterizzato da un design apparentemente minimale ma fortemente personale.
Gianni nel frattempo aveva messo in strada parecchie realizzazioni usando telai Linskey, Niner, Vodoo bikes dando sfogo alle sue idee sempre caratterizzate da pesi da squalifica per anoressia indotta… E tanto perché se sei impallinato per la legge transitoria di aggregazione ne trovi un altro uguale o messo peggio di te, si trovarono a sviluppare un marchio “LOS LOBOS CYCLES” destinato ai telai costruiti per le single speed. Tiziano Zullo, telaista che fa parte della mitologia dei saldatori degli otto tubi fin dal 1973, fu coinvolto nello sviluppo della “Hija de los lobos” prima e non unica realizzazione per celebrare la grande adunanza della non gara, la “Rockville” che ogni fine anno ancor oggi viene santificata nella bassa – a Roccavilla appunto -con tanto di sacrifici di suini come solo lì sanno fare. In quell’ occasione Spiedo produsse per Gianni una maglia Biciclista in tinta con la sua bimba !
Certo che a parte il gioco un poco di competitività nel Racing Team c’era e per ben tre anni dal 2008 fino al 2010 non si mancarono i campionati Italiani SS che avevano attratto tutti quelli che volevano ritornare bambini. Le single speed sono poi pressoché scomparse come alcune specie estinte a causa dei cambiamenti ambientali, perché erano inadatte ad un impiego gioioso sui sentieri di montagna: le single speed hanno vissuto momenti di grande bellezza, risate e sincere dispute a suon di birre artigianali e così mi piace ricordarle, Prosit!