Libro III – Cap. I
Alcuni cambiamenti non sono poi tanto male…
Il fine decennio visto che era stato brevissimo, stava ad un battito d’ali di un colibrì, l’arrivo delle 29″ dalla fine del primo lustro aveva aperto nuovi orizzonti tante situazioni si erano create ed altre spazzate via senza un preciso motivo, forse perché la spinta propulsiva della ricerca fatta dagli innovatori era stata distrutta dai colpi di mazza delle grandi imprese e dei fondi di investimento che avevano investito vedendo lauti guadagni. Le aziende medio-piccole di sospensioni avevano dovuto gettare la spugna sul ring della ricerca messe al tappeto da avversari di peso superiore: anche Rockshox e Manitou che erano state in prima linea dai tempi eroici (la RS-1 equipaggiò la Koga Myata di Greg Herbold portandolo la vittoria nel mondiale UCI del 1990) versavano in cattive acque, tanto che i loro proprietari dovettero vendere a terzi le loro creature, pur quanto fossero ormai sdoganate nei primi montaggi delle MTB nel terzo millennio. Insomma tanto sereni non si poteva stare, ti distraevi un attimo e tac! Ti spariva un prodotto di riferimento, un marchio sul quale avevi sbavato come una lumaca sulle foglie di lattuga, un produttore di componenti talmente costosi che ti aveva fatto giurare, perché un poco ti vergognavi di ammettere che pur di averli avresti fatto la via Francigena sui ceci per scontare la concupiscenza, di averli avuti da un amico al quale non piaceva l’anodizzazione viola in cambio di un classico cesto con due cocomeri ed un peperone.
Gianni si era accorto presto di questa arietta frizzante che avrebbe portato una burrasca nel nostro mondo. Le logiche commerciali delle grandi aziende portavano a livellare verso il basso i prodotti con grandi margini di guadagno spostando le attività produttive in Taiwan, lo andava dicendo da tempo, è la globalizzazione… Baby. Comunque fosse, Pro-M aveva una missione: proporre biciclette uniche ed inusuali e la ricerca di nuovi componenti era un punto sul quale profondeva molto tempo. Ora folgorato dalla luce della ruotona era impegnato nel diffondere il verbo delle 29″, osteggiato dai più e così facendo come forse sapete, si finisce spesso in croce, poi dopo con calma tutti quelli che avevano chiesto la tua esposizione, abbracciano la fede sostenendo di non essere mai stati avversi e che se lo avesse detto era pur un errore di interpretazione dovuto sicuramente al frastuono della della discussione, peccato per loro che verba volant, scripta manent… Ci sono innovazioni che a volte sembrano banali, ovvie e spesso scontate fin tanto che qualcuno non ha la buona idea di metterle su carta poi nel garage di casa con caparbietà e dove non arriva il cervello il fedele martello ti dà un aiuto sincero. Tutto nasce da una necessità, che poi sarà trasformata con guadagno in virtù, la storia dell’ingegneria è piena di esempi: pensate a Tullio Campagnolo che brevettò lo sgancio rapido del mozzo della ruota mettendo in pratica un idea avuta in occasione di una gara in cui ebbe la difficoltà nel togliere la ruota posteriore per cambiare rapporto, durante la scalata del Passo Croce d’Aune.
Altre idee pur quanto innovative negli anni ottanta dello scorso secolo non avevano lasciato che un flebile ricordo: prima delle forcelle e delle sospensioni posteriori il concetto era quello di sospendere il Biker non la bicicletta. Tom Ritchey fece correre Henrik Djernis, grandissimo ciclocrossista danese che vinse tre mondiali consecutivi con la sua P-21 in acciaio, con attacco manubrio Softride, costruendone poi per Thomas Frieschknecht una dotata del Softride Beam, un braccio in carbonio che ancorato ad un tubo orizzontale lillipuziano fungeva da tubo reggisella che smorzava le vibrazioni in fuoristrada. Per denaro, si corre con questo ed altro ma come evidenziato dalle realizzazioni successive legate alle sospensioni integrate alla bicicletta, di questo mirabile esercizio ingegneristico ne rimane ben poca memoria, fu applicato sulle biciclette da Triathlon ma fu alla fine il canto del cigno di questa tecnologia. Ora avevamo le sospensioni, tendicatena efficienti, freni che facevano il loro sporco lavoro sempre e se avevi il modello giusto anche senza colorati accessori, pedali a sgancio efficienti insomma eravamo ad un bel livello, con l’arrivo delle 29″ un nuovo mondo da esplorare confortati da innovazioni anche nelle geometrie dei telai, che cosa desiderare di più?
Da quando avevamo iniziato a pedalare fuoristrada un componente era inamovibile, il tubo reggisella: stava lì come l’obelisco Lateranense nel suo basamento chiuso dal collarino sul tubo verticale. Dopo che il meccanico ti aveva messo in sella fatta la posizione non ne voleva più sapere di muoversi, non tanto per lui ma per il Biker che sentiva la variazione di un millimetro come un affronto alla sua prestazione domenicale, non volessi mai che potesse soffrirne l’articolazione. Nei primi anni della DH la posizione era più prossima a quella del record dell’ora che ad una seduta su una moto, solo in seguito la sella fu abbassata come sulle BMX, giusto perché vi fu un travaso di atleti da questa disciplina. I pionieri del Freeride Wade Simmons, Brett Tippie e Richie Schley noti come FROrider la leggenda, iniziarono a pedalare con la sella in una posizione intermedia per poter affrontare al meglio i rilanci o i cambi di ritmo. Ma a parte un esperimento di metà degli anni novanta di un reggisella reclinabile che sembrava una buona idea, l’evoluzione sembrava vittima di calma piatta dalla quale uscirne sembrava fosse essere cosa lunga. Per rendere più facile la guida l’unica soluzione erano i collarini a sgancio rapido (sempre un doveroso grazie al Sior Tullio) ed alle tacche sul retro del tubo stesso che davano un idea al biker di quale fosse l’altezza corretta in pedalata: quindi non abbassavi la sella fin al momento di affrontare la discesa, se trovavi rilanci o tratti in salita erano solo affari tuoi, potevi bruciarti i quadricipiti oppure come nella più ortodossa della giuda da ciclocross scendevi e ti facevi il pezzo di corsa, ma il più delle volte trascinando i piedi fasciati dentro scarpe dalla suola rigidissima, le morbidose suole 5 Ten erano ancora dominio dell’arrampicata sportiva, bestemmiando in preda ad una sincope respiratoria.
I reggisella erano raffinatissimi, si cercava la leggerezza e la rigidità massima con la testa che teneva la sella ben salda ancorata da due gusci che si chiudevano come fossero le valve di una trinacria; era un motivo di soddisfazione esibire un Thompson frutto di una lavorazione meccanica di altissima qualità senza segno alcuno sullo stelo solo il logo laserato disturbava l’anodizzazione nera la più amata dai Bikers. Era una promozione nell’olimpo della raffinatezza, quasi come avere uno scarico Akrapovic sul GS, in fondo anche di questo si nutre il proprio io. Dovete sapere che c’è una gravissima patologia che ha mietuto vittime tra i Bikers, Gianni ne era affetto da tempo immemore: il non sopportare la presenza di alcun microscopico segno sul reggisella dovuto all’abbassamento od al sollevamento dello stesso, avrebbe potuto provocare il ripudio dello stesso con tanto di annullamento del matrimonio con il telaio: quindi essendo fedeli e felici di averlo sulla sua bimba non ha mai abbassato la sella. Vi lascio immaginare quanto fosse un esercizio di fine equilibrismo il non cappottare in avanti sulle discese più impestate, ma non c’era nulla da fare, piuttosto si sarebbe fatto riempire di abrasioni su braccia e gambe ma non avrebbe mai ceduto all’onta degli sfrissi. Visto che era un problema riconosciuto globalmente, qualcun altro dall’altra parte dell’oceano, tanto per ribadire il fatto che fossero in quel momento sempre tre passi più avanti di noi, che ne soffriva trovò la soluzione: rese il reggisella telescopico. Gianni che non perdeva giorno per informarsi su come migliorare il proprio divertimento navigando per siti specializzati e manifestazioni vide quello che aveva sempre desiderato, una cura al suo fastidio. Non c’era in quel momento in Italia nessun prodotto come quello: scrisse immediatamente una mail a Gravity Dropper il produttore del Turbo Seatpost per iniziare una collaborazione e distribuirlo tramite Pro-M.
Quando ricevette il primo esemplare fu vista da noi come la scoperta di un antidoto, finalmente un prodotto che eliminava totalmente il fastidioso problema: potevi alzare ed abbassare a piacimento tutte le volte che volevi e senza scendere, aprire e chiudere il collarino, la sella rendendo fluida l’azione lo trovai una delle più grandi innovazioni della MTB. Gianni come sempre aveva visto oltre la siepe, importando per primo nel bel paese un prodotto che sarebbe diventato fondamentale sulle bici degli anni successivi.
Il Turbo Seatpost era in realtà molto semplice: totalmente meccanico, aveva tre posizioni comandate da un manettino che andava posizionato sul manubrio con 100mm di corsa era un balzo nel futuro, una nuova era si aprì e fu accettata subito da chi voleva divertirsi e non soffrire. Il peso 410 gr. sembrava ad i soliti amanti delle bici anoressiche un insulto, ma i vantaggi una volta provato erano talmente tanti che due etti in più due etti in meno facevano l’effetto del prosciutto sulla bilancia del pizzicagnolo, più peso più gusto…
i soliti detrattori lo trovavano bruttino, visto il soffietto protettivo sullo stelo scorrevole ed il passaggio cavo fissato come un cavo della linea elettrica in una baraccopoli non era sicuramente il massimo dell’estetica, ma faceva il suo dovere: funzionava sempre, non ti tradiva in nessuna situazione. Unica accortezza la dovevi avere nella fase di ritorno alla posizione di pedalata, perché il nome Turbo non era per nulla immeritato: la forza era tale che avrebbe potuto espellere un pilota da un F15, tanto era veloce o nel peggiore dei casi renderti una voce bianca cantore nella cappella Sistina. Le odi al pezzo le abbiamo cantate sempre da lì in poi, chi avrebbe più fatto senza?