Libro I – Cap.VII
Le Betulle (il Pian delle … non la casa di cura)
La Valsassina è il giardino di casa dei Milanesi: una valle racchiusa tra il gruppo delle Grigne ad occidente ed il gruppo delle Alpi Orobie che come un falcetto da oriente a settentrione la separano dalle valli Bergamasche e dalla Valtellina. Negli anni del ruggente boom economico Lombardo fiorirono impianti di risalita come i narcisi a primavera grazie alle abbondanti nevicate ed al benessere che crescente permetteva di possedere una casetta nei paesi disseminati ai piedi e lungo il versante orientale: Piani di Bobbio e di Artavaggio, Alpe Giumello, Alpe di Paglio e Pian delle Betulle erano le mete invernali ed estive di tutti coloro i quali fuggivano dallo smog e dalle nebbie della gran Milan.
Essendo cresciuto ed avendo vissuto fino ai tempi delle superiori a Lecco tra escursionismo, alpinismo e moto da trial avevo passato molto tempo a zonzo tra cime e rifugi. La pratica della MTB poi aveva ridato impulso ai ricordi adolescenziali, andavo a ripercorrere con lo spirito di scout i sentieri che, come la ragnatela di un ragno attende la preda, collegavano i rilievi delle montagne alle spalle del lago.
Gianni anche lui, aveva trovato il suo “buen retiro” ai Piani delle Betulle, da anni spendeva le ferie estive in questo alpeggio che offre un’impareggiabile vista sul lago di Como e Lugano e sulle Alpi, a volte il Monte Rosa sembra messo li davanti come fosse un opera di Mosè Bianchi alla Pinacoteca Ambrosiana. Inoltre c’è un incantevole isolamento dal traffico poiché si può salire solamente con la funivia da Margno, essendo da secoli meta dei bovini da latte dei valligiani, i sentieri ed i tratturi più o meno accidentati non mancano, quindi un terreno perfetto per le biciclette. La gita principe, quella che ti metteva alla prova, era un giro di 40 chilometri con 1.900 m di dislivello che partendo da Margno ti conduce a Crandola per poi salire alle Betulle e ad affrontare le ripide balze tritate dal passaggio dei mezzi fuori strada dei pastori che portano al Larice Bruciato dove soli i più ardimentosi e dotati di gamba degna di Hulk le facevano in sella, per poi rilassarti per poco tempo, pronti ad affrontare un tratto poco pedalabile ai tempi dovuto all’erosione del sentiero che ti conduce fino alla Bocchetta di Agoredo.
Qui fu anche il luogo d’incontro con una coppia marito e moglie che incrociarono Gianni mentre saliva solitario: Lei pedalava una Moho rossa fatto che incuriosì parecchio il Presy (questo nick lo dobbiamo a questa Signora tempo dopo) poiché era l’importatore del Marchio. Una chiacchiera tira l’altra e così dopo l’invito fatto di vedersi una prossima volta li ritrovammo il fine settimana dopo in gita con noi e da quel giorno avremmo condiviso molto con Maurizio “Spiderman” e Pinuccia guarda caso “Red Moho” che sarebbe stata la biografa dello zoccolo duro del Pro-M Team.
Qui alla bocchetta avevamo il sentiero martoriato dal passaggio delle vacche quindi a spinta ti devi guadagnare ancor oggi altri metri di dislivello fino alla costa di Biandino, dove maestoso ed inquietante il Pizzo dei Tre signori ti osserva come fosse l’occhio di Sauron, sperando sia benevolo e non scarichi tuoni e fulmini alla nostra calcagna manco fossero i suoi orchi.
Ma con magno gaudio di noi bikers si percorre un sentiero che sembra stato disegnato con un pennello giapponese da scrittura, marcato ma senza sbavature fintantoché lungo la vertigine che si spalanca alla nostra destra il più ardimentoso dei test dei tempi ci attende: el sentier di vacch.
Questa linea è una profonda cicatrice mal rimarginata creata dal passaggio annuale delle mandrie che scendevano nella valle sottostante ad occupare gli alpeggi carichi di genziane proteggendo le spalle al santuario della Madonna della Neve. Stretto ed incassato ti costringe ad un unica traiettoria, i pedali spesso vanno in conflitto con le sponde create dai ripetuti passaggi dei bovini che per nostra fortuna hanno più testa di noi e quindi evitano i cambi di direzione troppo ripidi ma non per questo evitano dei dietrofront a novanta gradi. Ci faceva sentire eroi percorrerlo senza scendere di sella, visto che pur di non graffiare il reggisella Thompson, che era un componente esoterico in quei tempi in attesa di un telescopico che sarebbe arrivato un paio di lustri dopo, non si abbassava (ogni riferimento a persone di cui leggete in questa narrazione NON è puramente casuale). In quel periodo usavo dei pedali Kore leggerissimi e stilosi, peccato che lo sgancio fosse a volte molto complicato se non scalciavi come un mulo e spesso nell’affrontare i cambi di direzione dove mettevi i gioco l’equilibrio tanto eri in avanti con il manubrio, ti ritrovavi al tornante sotto fatto su come una salamella. Quando arrivavi alla fine decisamente provato la gippabile nella valle ti portava fino ad un ponte dove appena superato alla nostra destra il sentiero del Bitto ti invitava a percorrerlo, facendoti fare conoscenza con le mulattiere che avevamo avuto come esame da piccoli trialisti, un duro saggio per spalle dita e soprattutto freni.
Quelli della B5 erano, e non ho mai capito per quale motivo li avesse concepiti in quel modo, a disco idraulici ma comandati meccanicamente: la pinza conteneva l’olio che azionava le pastiglie, la quantità di olio al suo interno non riusciva a dissipare il calore generato quindi dopo un uso intenso e prolungato scendevano in sciopero lasciando ogni speranza di frenata. Dopo aver condotto le danze lungo il sentiero precedendo Gianni ed i compagni di avventura, rientrammo sulla gippabile che rapidamente ci avrebbe condotto a Introbio e, presi come in un indiavolato giro su un anello da speedway, in un sorpasso al limite della penalizzazione i freni decisero di non collaborare, facendomi andare diritto in un curvone a destra. La sfiga ci vede sempre bene! Finii in mezzo alle sterpaglie perdendo nell’ordine: telefono, portafoglio, chiavi di casa e chiavi della moto perché mi ero dimenticato la tasca dello zaino aperta… Questa gita rimase negli annali del Pro-M Team tanto che ogni volta che ripercorriamo il giro ci fermiamo per una preghiera a San Cul@ visto che ritrovai tutto. La parte noiosa di questo splendido giro è il rientro su asfalto fino a Margno, ma eri talmente sfatto che riuscivi ad apprezzare pure la statale. L’episodio mi fece ben comprendere che dovevo passare all’artiglieria pesante quindi il giorno stesso seduti davanti ad una panachè al bar della funivia ordinai una Shockwave a Gianni, una bimba color verde Kawasaki in omaggio a Reisinger ed alle mie moto da cross preferite.
La funivia che caricava le biciclette evitando di risalire pedalando dall’Alpe di Paglio che fatta una volta poteva essere anche piacevole ma che ripetuta più volte diveniva sovrumana, diventò il motore di quello che da lì a poco sarebbe accaduto. Gianni conoscendo i vertici della Società di gestione dell’impianto prospettò la potenzialità offerta dall’arrivo dei Bikers: avevamo in quel momento un vasto gruppo che ci seguiva e la diffusione delle bimbe dalle gambe lunghe aprivano i sentieri che scendevano in valle al Freeride.
Di chirurgia plastica ancora non se ne parlava sui percorsi, quello avevamo e ci piaceva cosi non soffiavi le foglie, non levavi i rami sennonché fossero di traverso, la guida era un concentrato di ignoranza e colpo d’occhio, non avevi il tempo di sbagliare, ti dovevi astrarre e trovare la linea migliore che con il passaggio di altri non sarebbe mai stata la stessa. Ci riappropriammo dei sentieri che con l’uso della funivia erano stati dimenticati. Gianni visto che, settimana dopo settimana il numero dei Bikers aumentava, si mosse coinvolgendo i gestori che avevano sotto gli occhi il centinaio di appassionati che ogni fine settimana si ritrovavano alla partenza dell’impianto e le autorità del Comune poiché andavamo a percorrere i sentieri di loro competenza. Si era creato un incremento di presenze nei bar, ristoranti ed alloggi: un segnale di quello che in questi anni sarebbe diventata una risorsa per le stazioni di media montagna che non avendo più la neve copiosa in inverno si ritrovano a dover chiudere le loro attività. Non si chiamava ancora Bike Park, non ne avevamo l’ufficialità, ma lo era a tutti gli effetti. Certo senza regole precise, senza trail builders, ma con tanta passione, studiavamo le mappe per veder dove fossero i sentieri, da quale alpeggio partissero ed andavamo a riscoprirli per poi condividerli con quelli che avremmo incontrato alla biglietteria incuriositi dal passaparola che si era creato. Alla funivia ci fecero un ingresso preferenziale sul retro visto che la coda multicolore dei guerrieri del fine settimana si allungava sempre più, i tempi di attesa iniziarono a farsi lunghi, non vedevano così tanta gente nemmeno con un metro di fresca in Gennaio.
Questo successo di partecipazione portò Gianni a coinvolgere Gianluca Bonanomi nella costruzione della pista permanente da DH che partiva dalla cima Laghetto: chi meglio di uno dei miti della specialità poteva innalzare il livello? Il Bona disegno sul manto erboso una linea tecnica ed accattivante che non tradiva il suo disegnatore, un tracciato che poteva sembrare senza difficoltà… Ma solo all’apparenza e quella di solito inganna. Eravamo travolti da un turbinio di idee ed una di queste diede vita alla prima edizione della BaraOnda Freeride una gara evento che metteva tutti sullo stesso piano, dove non vinceva chi andava più forte ma chi si avvicinava al tempo che Gianni aveva scelto tra 3 tempi di riferimento e poi estratto a sorte. Non era una manifestazione per “celoduristi” tutto casco integrale e testosterone, ma per chi aveva nella regolarità, nella scelta delle linea di discesa e un discreto cul@ l’asso nella manica.
Abbiamo trascorso Domeniche splendide al Pian delle Betulle, era la nostra casa di cura dell’anima, tra chi rientrava al piazzale della funivia sanguinante manco avesse incontrato un “leone” nel bosco, quello che si ritrovava a spingere la bicicletta su dalla salita con entrambe gomme sbragate ed un giro con le varianti Freak, pericolosissime conoscendo bene il personaggio che le ispirava, verso Margno o Crandola.
Ma come tutto prima o poi ed in questo caso troppo presto il giocattolo si ruppe. Un mattino il postino suonò alla porta di via Lucillo Gaio, 7 chiedendo del Sig. Giovanni Biffi. Aveva una raccomandata del comune di Margno per lui: la missiva intimava di ripristinare lo stato originario dei sentieri che erano stati, secondo la stessa, messi in condizione di non percorribilità dall’uso improprio dei Bikers e l’immediata dismissione della pista di discesa del Laghetto con ripristino del “cotico erboso” dei pascoli .
Gianni non accusò il colpo, gettò la raccomandata sulla scrivania e pragmatico diede tutto in mano al legale. Una cosa però gli bruciava: la piccolezza del gesto fatta da chi pensava ne ricavasse lustro, che non era in grado di vedere oltre la punta del naso. Quello che era stato fatto solo per puro divertimento fu l’embrione dei Bike park che frutta, in alcune altre zone d’Italia, introiti per migliaia di Euro, magari il Pian delle Betulle non sarebbe diventato Finale Ligure, ma chissà se fosse andato avanti…
Le mucche Highlander all’alpe Oro ancor oggi si chiedono che fine hanno fatto quei guardinghi bikers che il fine settimana, gli scandivano con il loro passaggio le ore al pascolo.