Pro-Meide – Libro I – Anabasi e catabasi

Libro I – Cap. III

Anabasi e catabasi

La piazza Cermenati in questa domenica al mattino presto, era punteggiata da anziani che andavano con passo tremolante ad affrontare la doppia scalinata in pietra grigia che conduce al sagrato della basilica di San Nicolò per la messa delle sette. L’assenza del Tivano mi confermava che avrebbe fatto molto caldo, le spiaggette ghiaiose del lago si sarebbero ben presto riempite di bagnanti accaldati e le auto cariche di Milanesi desiderosi di trovare frescura in Valsassina si sarebbero incolonnate sui tornanti da Malavedo a Ballabio, risvegliando con qualche colpo di clacson qua e là i residenti. Tutto nella norma, una classica immancabile domenica di Luglio tra lago e montagne tutti in fuga dalla bassa… Io stesso ero la regola non l’eccezione.
Dopo aver combinato un mezzo disastro nel montare l’ammortizzatore, avevo perso le viti facendole cadere nel tombino al centro del cortile di casa solo perché mi alzai dando retta al signor Ghezzi, che da buon pensionato pur di non star rinchiuso in casa stressato dalla moglie , appena mi vedeva armeggiare sulla bicicletta compariva come fosse una poiana affamata in picchiata su un pollaio. Era stato per quarant’anni alle Officine F.lli Borletti in via Washington, 70 a tornire minuteria e immancabilmente in un Milanese melodioso mi diceva “Uèe, l’è no ‘na bicicléta chesta chì… varda che robb… varda lì…varda lì, tuta de alùminio… ma quant la pésa, pòoch me sa propri… pòoch” ; mi son dato del pirla per un buon dieci minuti, ma per mia fortuna le viti le aveva lui. Vicino a casa avevamo la casa della vite e per sfizio di collezione ogni settimana ne acquistava qualche serie di passi e misure diverse, a che scopo non l’ho mai saputo… C’è chi colleziona francobolli e chi viti, non entro nel merito della passione, un terreno minato. Senza il suo intervento riparatore il giorno dopo non sarei stato lì ad aspettare Gianni Biffi ed i suoi argonauti.

In quel periodo non possedevo un autovettura, non che non ne avessi avute, ma dopo aver preso tra il  Giovedì notte e il Venerdì mattina due multe in divieto sosta per lavaggio strade decisi che il comune di Milano poteva vivere senza affibbiarmi multe. Mi muovevo estate ed inverno, pioggia, sole e neve in moto, se ne avevo necessità noleggiavo un auto: ma quel Sabato optai per un trasporto rapido, caricai la bici sul GS. La peculiarità di quest’ultima era, oltre al sistema di sospensione anteriore, l’ottimizzazione del trasporto bagagli: borse laterali, baule e la sella divisa in due parti che nascondeva sotto quella del passeggero un telaietto metallico che allungava il portapacchi. Tolte le ruote ed il reggisella legare la B5 con due corde elastiche era un gioco da bimbo dell’asilo, nelle borse casco e protezioni. Ero in piedi in fianco alla moto quando alle 7,30 preciso come un treno svizzero un furgone bianco seguito da alcune auto si fermò azionando le quattro frecce appena prima della piazza. “Biffi, questo è fuori, ma fuori vero…” disse ridacchiando Daniele scendendo dal furgone. Era un Ducato bianco, un duemila benzina: “Gianni come mai un furgone a benzina? Consuma come una nave porta container…” esclamai. “Non sopporto l’odore del gasolio, per niente” La risposta lapidaria non ammetteva replica. Nel frattempo scesero dalle auto accodate una decina di bikers dalle divise multicolori , in quel periodo il fluo imperava la stesso Gianni aveva un giacchino antivento logato Mountain Cycle in pieno petto, con una scelta di colori forse suggerita al grafico Californiano da un uso smodato di sostanze psicotrope… Non so chi fosse meno fuori tra tutti, poiché visto da vicino nessuno è normale (Franco Basaglia cit.).

Sul furgone il terzo sedile era occupato da un altro biker con una maglia attillata che rivelava il suo passato da stradista, un Milanesone dinoccolato e dalla lingua tagliente ma sempre in modo educato: Daniele Marnati. Il braccio meccanico di Pro-M, lo scoprii quel giorno, qualche ora dopo, prima di iniziare la discesa verso Poschiavo. Rimontai le ruote ed il reggisella alla velocità di Speedy Gonzales e trovai posto sull’auto di Gigi C. uno dei Clienti amici del Biffi che iniziò ad apprezzare la mia logorrea che gli tenne compagnia fino alla destinazione: Tirano. Il Bernina Express, treno a scartamento ridotto della ferrovia Retica con i suoi vagoni rosso fiammante, ci attendeva per portarci con lentezza al Passo del Bernina 2.328m sul livello del mare: considerato che Tirano sta a 441m avremmo avuto più di 2000m di dislivello in discesa, dato che saremmo scesi fino al Morteratsch dove avremmo raggiunto il ghiacciaio e, prima di riprendere il trenino e ritornare al Bernina se il meteo ci avesse assistito, avremmo ammirato la cima del Pizzo Bernina e la cresta vertiginosa del Biancograt che mette ansia solo a nominarla invano. Ma Svizzeri sono ed i treni caro lei, partono sempre in orario, quindi trovato parcheggio nei dintorni della stazione andammo trafelati alla banchina dove in ordine allineammo le bici pronte ad essere caricate sul vagone dedicato, appoggiate al corrimano sembravano tante fuoriserie pronte alla partenza in puro stile Le Mans. Sembrava un trofeo monomarca Mountain Cycle escludendo la mia AMP B5, una Pro Flex 856 di cui ho gà parlato ed una bici in tubi di acciaio con una forcella ammortizzata marchiata Marnati.

La salita con il percorso era un apoteosi di bellezza architettonica e paesaggistica: dopo pochi chilometri passata la frontiera elvetica un viadotto elicoidale ci sorprese , permettendoci di fotografare a 360 gradi la valle consentendo al trenino di inerpicarsi con pendenze al 70% per arrivare a Miralago costeggiando il lago di Poschiavo dove l’azzurro turchese delle acque si scioglieva nel verde profondo dei boschi circostanti e dove la valle si apre con maestosità sotto lo sguardo severo del Bernina. Non si faceva un granché di chiacchiere, per molti del gruppo era la prima volta, si osservavano le rive boscose ed i ghiacciai pensili tra gli “ooohhh” di stupore di comitive di turisti Giapponesi con calze ed infradito ai piedi tutti presi dallo smanacciare le loro Nikon F4, tanto che fotografarono anche noi quando scendemmo al passo… Chissà che cosa mai pensassero di noi, credo che l’abbigliamento arlecchinesco abbia avuto il suo fascino. Lasciata l’alpe Grum la vista del Lago Bianco ci permise di vedere il sentiero che avremmo percorso per tornare a Tirano, scorreva in parte in fianco alla linea ferroviaria per poi sparire alla vista poco prima di una diga idroelettrica. Scendemmo carichi come molle dal treno sferzati da un vento pungente che al Passo del Bernina non ti abbandona mai nel bene e soprattutto nel male, quindi anche l’antivento psichedelica aveva un senso perché ti evitava il record di corsa al bagno dove se non avevi il franco pronto eri castigato…

Salire a freddo per guadagnare una cinquantina di metri di dislivello era decisamente fastidioso, le nubi si sovrapponevano rapide al sole che cercava di riscaldare una landa senz’alberi ed il vento ovviamente faceva il suo lavoro soffiandoci beffardo contro. La difficoltà della percorrenza dei sentieri era assai diversa da quella di oggi date le minori escursioni e le gomme che non avevano le mescole ultragrappanti che utilizziamo in questi ultimi anni; non si abbassava la sella in discesa per cui vederci scendere non era come vedere Barishnikov sul palcoscenico dell’Operà di Parigi… Posso dire che con le geometrie del tempo facevamo cose inimmaginabili, tipo cappottoni degni del miglior “Fantocci” (Sig.na Silvani cit.) oppure la dimostrazione pratica del Big Bang. Avendo esplorato ormai da dieci anni l’Engadina, condussi il gruppo lungo un sentiero escursionistico che sfiorava il Piz Lagalb, un dente scosceso che fa da spartiacque con la valle di Livigno: non esistevano precisi sentieri per mountain bikers, si percorrevano le carrarecce dove i cavalli trainavano annoiati le carrozze pullulanti di vacanzieri con i pantaloni di velluto a coste larghe oppure i tracciati del CAS. Il sentiero lo conoscevo bene, sapevo quali difficoltà avremmo trovato, vedendo il gruppo cosi omogeneamente fluo pensai che lo fossero anche in discesa. Daniele il braccio meccanico di Pro-M si fece gran parte del sentiero con la bici a mano e non me lo mandò a dire quando fummo alla stazione del Morteratsch: in realtà non era cosi difficile, ma per chi come lui proveniva dalla strada, la sua idea di fuoristrada era più simile al ciclocross… Gianni aveva in quel momento una San Andreas nera e dietro di lui sfilavano tutte le altre che sembravano mustang al galoppo, quasi a fagocitare i massi di granito che interrompevano il fluire del sentiero, che poco dopo si sarebbe dolcemente trasformato in un serpente di terra gialla fino alla strada bianca che ci avrebbe portato verso il ghiacciaio. Un caldo sole ci aveva accolto, ma nuvolaglie minacciose che facevano cappello alla cima ci consigliarono di prendere il primo treno in direzione del Passo.

Finalmente il tepore della carrozza che era come da regolamento per tre quarti occupata da una comitiva di giapponesi questa volta con gli scarponi da montagna e con le macchine motorizzate pronte a sparare trentasei foto in un battito di ciglia. Il gruppo sembrava soddisfatto del percorso non avevo familiarità con nessuno di loro, ma una sana empatia si era già sviluppata. Non ero ancora nel meccanismo della presa per i fondelli, attività che con diverse modalità segnerà le uscite future… Per fortuna non ci siamo mai presi sul serio, altrimenti non sarei qui a scriverne.
Il tragitto nonostante la splendida lentezza del trenino fu breve, scendemmo all’ Ospizio del passo e costeggiando il Lago Bianco pedalando alcuni tratti in saliscendi piombammo all’alpe Grum da dove si spalancò sotto le nostre ruote la scoscesa Val Cavaglia. Il Lago Palù alla vista sembrava un turchese grezzo adagiato su un cuscino di color smeraldo legato da un fiocco grigio. Il sentiero scendeva a capofitto fino a lambirlo, tra sassi smossi e taglia acqua assassini: eccome se lo erano.
Le vittime non si fecero attendere ed io come dimostrerò anche in futuro ero la vittima sacrificale predestinata. “Certo che… Se mi scendi così più prima che poi una foratura ti aspetta” Gianni con un sorrisino un poco strafottente ma ci stava, ero nuovo dell’equipaggio, il comandante era lui anche se non mi sembrava fosse il capitano Achab e io non ero Ishmael, per carità aveva ragione… “La modalità Caterpillar può dare dei buoni frutti, ma a Poschiavo non arriverai se non hai qualche camera nello zaino”. In effetti Gianni aveva ragione. Ho sempre guidato con pressioni imbarazzanti, ma visto che non sono un peso piuma avrei dovuto preferire due ruote di legno. Per completare il quadro avevo problemi con il cambio, Daniele il braccio meccanico di Pro-M forse impietosito dal mio armeggiare sul cavo si avvicinò. “Regola n.1: se té sbùset té se incùlet… Regola n.2: le regolazioni si fanno in officina prima di uscire… Regola n.3: incoò l’è Dumenega e lauri no”. Queste regola auree mi seguono ancora adesso anche se dopo ventidue anni qualcosa è cambiato…

Ed allora giù sempre a testa bassa visto che il reggisella stava in cielo, attraversando la linea ferroviaria conducendo le danze, seguivamo i calanchi che il torrente Cavagliasch impetuoso aveva forgiato, accecato dalla voglia di gettarsi nel lago e noi chi più chi meno non eravamo inferiori per impeto: il sentiero sembrava infinito e la stanchezza iniziava a farsi sentire. La postura in sella, le sospensioni che offrivano al massimo 120 mm nel mio caso per le San Andreas 112,5 mm non erano sicuramente degli overcraft, ma i sorrisi non mancavano, le ruote si sollevavano ritmiche da terra sbuffando nuvole di polvere come tori all’ingresso dell’arena.
Rapidamente il sentiero si trasformò in un tratturo e poi in una strada bianca e senza renderci conto ci trovammo sull’asfalto a Poschiavo ed una ciclabile ci avrebbe portato a Capolago. La statale ci avrebbe riportato alle auto parcheggiate, avevamo il tempo di sfilarci la testa del gruppo l’un l’altro con scatti repentini oppure infilandoci negli spazi lasciati aperti a centro curva ma le fughe venivano sempre ricucite da Gianni che aveva le ruote più scorrevoli : questo sarà il leit motiv che accompagnerà le gite nel futuro, ma in quel mentre non potevo saperlo…
Mi addormentai a Sondrio e mi svegliai sul lungo lago di Lecco che pullulava di gente a spasso nel tardo pomeriggio con bimbi vocianti, cani al guinzaglio e decine di moto allineate in bella mostra davanti alle gelaterie. “Grazie a tutti, è stata una gita niente male” dissi mentre legavo la bicicletta sulla moto. “Grazie a te, ottimo giro, sentiamoci prossimamente, magari qualche altra volta usciremo”. Salutai tutti con un cenno della mano e mentre i due Daniele e Gianni stavano per salire in furgone dissi: “chissà mai che non si esca qualche altra volta se ci sarà modo”. Inforcai la moto e sgattaiolai tra le auto in coda direzione Milano.